Giganti e nani

Un simil referendum svolto su internet circa l’indipendenza del Veneto suscita allarme nel mainstream mediatico italiano. I tentativi di ridurne il significato si scontrano con alcuni dati sociologici e politici che invece avvalorano gli esiti dell’operazione. Il desiderio di distacco dall’Italia è alquanto diffuso, da quelle parti, e per ragioni non tutte contingenti.

Non aveva suscitato altrettante reazioni l’esito dello studio condotto due anni fa dalle università di Cagliari e di Edimburgo sull’identificazione dei sardi. Eppure da quello studio emerge una fortissima prevalenza del sentimento di appartenenza esclusivo o prevalente dei sardi alla propria comunità, a discapito dell’identificazione italiana, nonché il dato politico dell’aspirazione all’autodeterminazione diffuso presso un 40% abbondante del campione. Ma dell’insignificanza della Sardegna e di ciò che la riguarda nel contesto italiano sappiamo già tutto e non ce ne meravigliamo più. Se ne prende atto con rassegnazione.

Del resto, siamo abituati – da bravi self-colonized – a pensarci meritevoli di qualsiasi disgrazia e/o mancanza di rispetto. E se cerchiamo di scappare da un padrone è solo per procurarcene un altro, suppostamente migliore. Con esiti inevitabilmente ridicoli.

Poi guardi alle reazioni per l’esposizione dei Giganti di Monti Prama (che comunque potevano essere visti comodamente e tutti insieme fino a pochi mesi fa nel centro di restauro di Li Punti, SS) e ti sembra che i sardi abbiano un imprevisto moto di resipiscenza collettiva. Tutt’a un tratto, in tanti cominciano a farsi delle domande. Quelle statue, vere meraviglie della creatività umana, così singolari e inedite, così stravaganti rispetto al canone estetico che ci hanno inculcato come assoluto riferimento culturale, ci richiamano a una storia a cui sentiamo vagamente di appartenere pur non sapendone nulla. Il che – al solito – scatena anche inevitabili reazioni di megalomania galoppante, in linea con i comportamenti previsti nelle sindromi da autocolonizzazione.

Il sentimento di meraviglia per il nostro passato (passato evidentemente meno peregrino e subalterno di quanto comunemente si creda) fatica tuttavia a tradursi in ragionamento complesso e a trovare connessioni con il resto dei fenomeni in cui siamo immersi. Mancano diffusamente strumenti interpretativi, capacità di comprensione, nozioni fondamentali. E non sembra che la politica istituzionale se ne dia troppo pensiero, anzi, l’impressione è che sia proprio l’apparato di potere dominante (comprese le sue espressioni “tecniche” e professorali) ad alimentare la debolezza cognitiva dei cittadini.

Così il disincanto politico cresce e si riverbera o nell’abbandono della stessa possibilità di scelta (ossia la rinuncia al voto) o in forme di affidamento a leader dalla personalità comunicativa forte, e forte in quanto tendente alla semplificazione. Il Presidente del Consiglio italiano è un prodotto di questa deriva: autoritarismo cialtrone, venato di simpatia casereccia. In altri posti, dove non ci sono né il renzismo, né il residuale berlusconismo e nemmeno il grillismo a stabilizzare lo scenario, certe pulsioni vengono assorbite da proposte politiche più chiaramente reazionarie e di destra, come il Front National in Francia. Risultato questo in linea col vasto movimento anti Unione Europea e anti euro che imperversa in giro per il continente e che è alimentato dal populismo più retrivo o dalle teorie del complotto più avventurose. I più sofisticati tra gli euroscettici si affidano ai dogmi neokeynesiani, come fosse il nuovo Verbo calato su di noi per illuminarci.

Non è certo con questo coacervo di pulsioni elementari, di mancanza di coscienza di sé e di teorie in cerca di rivincite accademiche e mediatiche che si può arrestare la deriva in corso. Molte di queste proposte culturali e politiche sono, o saranno a breve, solo strumenti ulteriori in mano al medesimo apparato di potere dominante, che se ne servirà o come spauracchio o come braccio esecutivo, o come falsa bandiera dietro cui nascondersi.

Fa invece fatica a entrare nelle agende politiche la questione dell’autodeterminazione dei popoli, o vi entra solo come arma di distrazione di massa, o come fattore di disturbo. Basti vedere le scempiaggini scritte a proposito dell’annessione della Crimea da parte della Federazione Russa e il suo collegamento strumentale alle questioni aperte altrove, Scozia e Catalogna in primis.

Così ritorniamo al cosiddetto referendum veneto sull’indipendenza dall’Italia. Anche qui, le analisi prevalenti sono assurde banalizzazioni ideologiche, dove per lo più, a parte non tener conto della Sardegna (non c’è nemmeno bisogno di dirlo), si inquadrano fenomeni storici complessi e spesso di lunga durata dentro le asfittiche cornici concettuali tipiche dell’intellighentsia italica. Quella stessa che non ha nulla da dire sui Giganti di Monti Prama, nemmeno quando invece all’estero della sensazionalità dei reperti si sono finalmente resi conto. Il bigotto provincialismo e il giacobinismo autoritario tipici e costitutivi dell’Italia unita sono sempre in agguato. Sono gli stessi che si affannano a difendere le politiche di austerità così care al grande capitale internazionale.

Lo stesso che non viene mai evocato dai detrattori dell’Europa come spazio politico condiviso. Molto meglio prendersela con le banche (genericamente), con l’euro, con i migranti. Senza mai andare a fondo dei meccanismi di dominio che pure a parole si intenderebbe combattere. E con questo si rischia ovviamente di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ossia di rimettere in discussione diritti, pace e libertà in nome di altri valori (patria, sovranità nazionale, coesione culturale, ordine, ecc.), presentati come gli unici irrinunciabili.

Ma la ricchezza culturale, la pace, le possibilità di scambio, di spostamento, di confronto e di scelta garantite dal processo di integrazione del continente devono essere un bene indisponibile su cui non sia lecito esercitare la retorica del conflitto e degli egoismi. E lo stesso processo di autodeterminazione dei popoli, lungi dall’essere considerato un fattore disgregante, dovrebbe essere valorizzato come cemento di tale processo di integrazione. Che passa senz’altro per le istituzioni europee e per le dissertazioni (o meglio, le baruffe) sull’UE e sull’euro, ma non può ignorare la storia e la sua complessità. Ignorare la storia significa, a livello locale, essere una pedina sacrificable (come è oggi la Sardegna) e, al livello più ampio, commettere errori stupidi e dannosi credendo di perseguire un vantaggio.

Dentro il processo virtuoso dell’integrazione dobbiamo esserci anche noi sardi, con tutto il peso della nostra lunga vicenda umana. Dobbiamo recuperare il senso della nostra centralità, lo stesso che presumibilmente coltivavano i nostri antenati, ai tempi dei Giganti. Dobbiamo avere la nostra voce e dobbiamo dare il nostro contributo al mantenimento e all’ampliamento pacifico del regime di diritti e libertà che l’Europa ancora rappresenta, a dispetto della decadenza in atto. O si assume questa prospettiva, o i nazionalismi ottocenteschi, le chiusure, le discriminazioni saranno il lascito che trasmetteremo ai nostri figli e nipoti. Non ce ne saranno grati.