Mortiferi inquinamenti

Da qualche giorno le pagine della Nuova Sardegna ospitano il lancio promozionale di una collana di libri, prossimamente allegata al giornale. La collana si intitola Le guerre dei sardi e consta di diversi volumi dedicati alla presunta abilità guerresca della nostra genia. Nella presentazione che ne fa Manlio Brigaglia si illustrano i contenuti dei vari volumi, non senza dispiego di un’adeguata dose di retorica. Si tirano in ballo gli antichi Shardana (ricordando però che “gli studiosi più avvertiti non credono che fossero sardi”) e naturalmente la Brigata Sassari. Quest’ultima, a parte la rievocazione delle sue imprese nel primo conflitto mondiale, viene ricordata per la sua partecipazione “alle missioni di pace […] in paesi lontani e diversi, straziati da sanguinosissime guerre locali”.

Non so a quanti sardi questa operazione riuscirà gradita, né quanti si soffermeranno a riflettere sul suo significato. È necessario tuttavia non farla passare sotto silenzio. Si tratta infatti di una scelta gravissima e totalmente inaccettabile, che offre una chiave di lettura sulla prospettive della Sardegna nei prossimi anni, anche alla luce delle ultime elezioni e di ciò che si sta muovendo tutto intorno a noi, a livello mediterraneo ed europeo.

L’operazione della Nuova è gravissima sotto vari aspetti e molto maldestra appare la presentazione, raffazzonata e falsificante, che ne fa Manlio Brigaglia. Cominciando da qui, va sottolineata la mala fede con cui si presenta la partecipazione della Brigata Sassari alle presunte missioni di pace della NATO. Attribuire tale partecipazione a una necessità umanitaria è ormai un luogo comune usurato. Tra l’altro è notevole l’atteggiamento “orientalizzante” (nel senso di Edward Said) applicato in questo frangente. Sono le popolazioni locali che si massacrano tra loro e hanno bisogno dell’aiuto di noi “occidentali” illuminati e generosi per salvarsi da se stesse. Notevole, perché in fondo è lo stesso approccio che è stato fatto ingoiare a noi sardi per parecchio tempo e che è stato interiorizzato da una porzione molto ampia della nostra collettività.

A ben guardare, è precisamente lo stesso che dà un senso all’operazione editoriale in questione. Il “valore” dei sardi è commisurato sulla loro utilità come carne da macello in conto terzi: va bene ed è degno di onore a patto che sia speso per qualcun altro. L’accenno ai morti “sardi” delle guerre di indipendenza italiane è illuminante. Detto per inciso, tutti i sudditi sabaudi delle prime due guerre di indipendenza erano formalmente “sardi”, in quanto sudditi del Regno di Sardegna. Il che non significa che fossero di nazionalità sarda, ovviamente. Sarebbe stato doveroso specificarlo, senza millantare perdite copiose (e gloriose) a vanvera, ma tant’è.

Sulla retorica che ammanta le dolorose e per certi versi mortificanti vicende della Brigata Sassari c’è poco da aggiungere a quanto già detto altre volte. Farvi ancora ricorso denota una notevole povertà di argomenti, oltre che di buone ragioni.

La dimostrazione del senso profondo di questa operazione editoriale della Nuova si ricava, a contrario, dall’assenza di qualsiasi menzione del periodo giudicale, in particolare della lunga guerra contro i catalano-aragonesi tra Tre e Quattrocento. Eppure se c’è un momento della nostra storia in cui la virtù bellica dei sardi si è accompagnata al perseguimento di fini non detestabili è questo. Omissione altamente significativa, dunque. Così come quella relativa al periodo rivoluzionario sardo. Ma in quel caso, a parte l’opposizione alla tentata occupazione francese (comunque omessa anch’essa), le virtù guerresche dei sardi si esplicitarono per lo più in una ostinata resistenza contro lo status quo, contro il sistema di oppressione vigente, e sconfinò spesso in atti di guerriglia e di mobilitazione “dal basso”, perciò qualcosa di troppo pericoloso, dal punto di vista politico, di troppo poco coerente con la cornice concettuale che fonda la narrazione proposta.

Tale cornice, a conti fatti, consiste nell’ennensima imposizione dello stereotipo subalterno e coloniale dei sardi come razza esotica, pittoresca ma a suo modo fiera, da restituire alla luce della Storia attraverso il suo sacrificio per una superiore forma di civiltà, la quale ci sarebbe altrimenti preclusa, se fosse solo per noi.

Una metafora molto calzante del sacrificio che ancora oggi ci si chiede, anche in termini bellici, all’occorrenza. Del resto “sacrifici” è la parola che ha usato lo stesso neo presidente della Regione sarda Pigliaru. Bisogna che ci sacrifichiamo. Non solo noi stessi, individualmente, ma anche le nostre cose, il nostro territorio, le nostre risorse. Introiettare questi costrutti e accettare che mezza Sardegna venga destinta alla piantagione di cardi, da bruciare insieme ad altre schifezze assortite a Fiumesanto (tanto per dire), è un tutt’uno.

Così come sarà necessario sacrificarci per lasciare spazio alle altre illuminate operazioni imprenditoriali che ci riguardano, dai parchi eolici in aree di pregio naturalistico e archeologico, alle centrali a carbone, al GALSI o, perché no?, ai campi da golf. E naturalmente alle sempre indispensabili (non a noi, chiaramente, ma a chi ci protegge) servitù militari (tema su cui le dichiarazioni programmatiche del presidente Pigliaru sono state colpevolmente omertose, guarda caso, e la recente visita del presidente degli USA in Italia non lascia sperare nulla di buono, in questo senso).

Le ragioni che hanno spinto il gruppo editoriale L’Espresso a questa pubblicazione sono sconosciute. Si possono solo fare illazioni. Certamente una scelta del genere in un momento come quello presente non può lasciare indifferenti, anche al di là della questione militarismo vs. antimilitarismo, che in questo caso è accessoria. L’uso di mezzi di persuasione come questo aggiunge elementi di preoccupazione a un quadro già fosco, fatto di deprivazione materiale e culturale. Non è un bel momento per la Sardegna, indubbiamente, ma ciò a cui stiamo assistendo rischia di essere solo la premessa per un ulteriore peggioramento. Esserne consapevoli è il primo passo necessario per non farci sommergere dallo schifo che si sta preparando per noi. Il passo successivo è darsi da fare per opporsi allo schifo e costruire un’alternativa di emancipazione, di dignità e di benessere diffuso.