Cagliari non è una città sarda. È una città mediterranea abitata in massima parte da sardi. Cagliari si può ritrovare in tutte le città che si bagnano i piedi o la pancia nel Mare Nostrum, da Dubrovnik a Barcellona, da Marsiglia a Tunisi, passando per Genova, Bastia, Napoli, La Valletta. Cagliari è una specie di Gerusalemme sospesa tra cielo e mare: così la descriveva Elio Vittorini. Una città di pietra, luminosa, misteriosa, decadente, secondo le descrizioni dei vari scrittori che ne hanno parlato, da D.H. Lawrence a Sergio Atzeni. Cagliari è costretta a esistere in una dimensione sospesa, in uno spazio decontestualizzato. Capitale della Sardegna per caso e per forza, con lo sguardo rivolto ostinatamente di là dall’Isola e da sé, in una guerra eterna tra un fuori irraggiungibile e un dentro costantemente avanzante e minaccioso.
La sua storia lunga ma eterogenea, spezzata, violenta, ne fa un centro molteplice. Karales era il toponimo originario. Già un plurale. Chi ne attribuisce le origini all’arrivo dei fenici dimentica che quella porzione di terra era abitata da secoli, prima che approdasse la prima nave proveniente da Tiro o Sidone (o, più probabilmente, da Cipro). Poi furono i punici e i romani a farla diventare una grande città. E lo era, una grande città, la vecchia Karalis. Messa lì, nel bel mezzo del Mediterraneo Occidentale, sembrava fatta apposta per attirare traffici di uomini e di merci. Le sue rovine puniche e romane – quel che ne rimane – attestano la sua dimensione storica nient’affatto marginale, per un lungo arco di tempo. Persino in piena decadenza della civiltà romana, quando l’Occidente era ormai ostaggio dei clan germanici e delle scorribande di Avari e Unni, Karalis riuscì a ritagliarsi un ruolo di primo piano. Era l’epoca in cui le tribù vandale che avevano sottomesso il Nord-Africa si erano sostituite ai funzionari e alle truppe romane nel controllo dell’Isola. In proposito, parlare di conquista è decisamente esagerato. Karalis non fu devastata. Fu considerata invece un buon luogo di esilio per l’intellighentsia cristiana delle province africane. I vandali erano di confessione ariana e non volevano vescovi fedeli a Roma tra i piedi. Quelli delle diocesi africane vennero spediti dunque in Sardegna, dove potevano fare meno danni. Tra tutti, brillava l’astro di Fulgenzio di Ruspe, grandissimo intellettuale dell’epoca. Egli mise su un cenacolo di illustri personalità che fecero di Karalis, per qualche tempo, una sorta di capitale culturale di quel che restava dell’impero romano d’Occidente.
Le glorie della Karalis antica non resistettero invece all’egemonia che gli arabi conquistarono nel Mediterraneo nel corso dell’VIII secolo. Attaccata e depredata, sottoposta alla tassa degli infedeli (potevi non convertirti all’islam, ma pagavi pegno in moneta sonante: mica scemi, quelli), fu progressivamente abbandonata a favore di centri abitati meno prestigiosi ma più sicuri. Le rovine romane furono un’ottima fonte di materiale edile. E questo vale per tutti i secoli che seguirono, fino a noi.
Così, la Cagliari che conosciamo in realtà non è quella stessa Karalis le cui glorie si perdono nei meandri dell’età antica, abbandonata ai primordi del medioevo. La Cagliari attuale è la prosecuzione e l’ampliamento della rocca che il “giudice” del regno di Calari Barisone de Lacon-Gunale nel 1216-7 concesse ai pisani. Per Pisa fu una fondamentale testa di ponte economica, militare e politica nella Sardegna meridionale. Da lì rinasce la città come la conosciamo noi: Casteddu. Castel di Calari, si chiamò infatti allora. Ossia, il Castello (del regno) di Calari. Caller, per i catalani. Poi, per tutti e fino a oggi, Callari, con la doppia “elle” letta alla spagnola. La Cagliari di oggi è dunque pisana e catalana, poi spagnola, sabauda e infine italiana. Un varco spazio-temporale aperto verso un Fuori che si assume come detentore dell’autorità politica, culturale e morale. Un guardiano sonnolento disteso lungo il golfo, con le spalle rivolte alla Sardegna e lo sguardo perso verso l’orizzonte. Che i sardi fino all’epoca spagnola non potessero stare dentro le mura del castello dopo il tramonto, pena la morte per precipitazione dalle stesse mura, è un po’ la metafora di una strana condizione culturale che fa di Cagliari da secoli la prima città straniera che tanti sardi conoscono nella loro vita. Una città straniera in Sardegna, costretta suo malgrado a rappresentarla. Una testa (caput, da cui capitale) in conflitto col proprio corpo.
Risulta dunque paradossale che ormai Cagliari sia abitata in realtà non solo da sardi del posto, ma anche e in modo particolare da sardi di ogni provenienza. Che sia dunque la sede di un melting pot pan-sardo. Lo è però senza la coscienza di esserlo né la consapevolezza di cosa questo potrebbe significare, in termini di forza simbolica e di fascino, anche e soprattutto verso l’esterno. Nemmeno la presenza plurisecolare di una università ha mutato il carattere della città: gli studenti sono una presenza fantasmatica, mal tollerata e se possibile taglieggiata, non un elemento costitutivo del tessuto antropico locale e nemmeno una risorsa valorizzata.
Per lo più, il cagliaritano medio è afflitto da una strana forma di dipendenza televisiva e culturale da modelli totalmente esogeni e spesso patogeni, che lo fanno identificare più con gli esempi milanesi/romani propinati dalla televisione italiana che con qualsiasi cosa abbia a che fare con la sua stessa storia. Un circolo vizioso culturale che espone all’incapacità di capire ciò che si ha intorno, tanto il vicino (la Sardegna) quanto il lontano (il resto del mondo, Italia compresa), finendo per condannare la città a una dimensione incompiuta e provinciale.
La presenza massiccia di tutti i centri di potere dell’Isola, di quelli che contano (economico, politico, mediatico, di intermediazione, massonico), nonché la struttura sociale rigidamente classista, fondata su vincoli di tipo feudale tra clan familistici, contribuiscono drammaticamente alla corruzione morale di una città altrimenti dotata di un fascino unico, difficile da paragonare ad altre, sicuramente poco “italiana”, benché non lo sappia.
Le considerazioni che precedono danno il senso di quanto sia vacua e a suo modo patetica la retorica della Cagliari capitale del Mediterraneo spesso sciorinata da quegli stessi figuri che hanno contribuito al suo saccheggio e alla sua mortificazione, alla devastazione della sua memoria e alla sua rovina materiale. Basti pensare a come è stata trattata la spiaggia del Poetto con l’area delle Saline e lo stagno di Molentargius, nel loro insieme una meraviglia della natura incastonata in un contesto urbano: un unicum meritevole di ogni cura. O le aree archeologiche cittadine, dall’anfiteatro romano alla necropoli di Tuvixeddu-Tuvumannu. Un patrimonio di storia e di bellezza che, da solo, in molti altri posti d’Europa e del mondo, sarebbe stato una risorsa economica di lunga durata, oltre che una fonte di arricchimento culturale e umano. Già questi esempi bastano a configurare il delitto che i cagliaritani e tutti noi abbiamo perpetrato o tollerato a danno di Cagliari, dunque ai nostri stessi danni.
Forse è azzardato aspettarsi che quando cambierà Cagliari, cambierà anche la Sardegna. Però forse cambiando la Sardegna, cambierà anche Cagliari. Le due cose vanno insieme. Bisogna metterci mano. Senza paura.
Articolo originale su: http://sardegnamondo.blog.tiscali.it/2012/03/15/casteddu-de-callari-sardigna/