A Sassari si può visitare quel che rimane del castello “aragonese”, edificio storico demolito alla fine dell’Ottocento, insieme a tanti altri in giro per la Sardegna. Allora sembrava necessario privarsi di queste memorie di un passato che non diceva più niente a nessuno, se non che forse avevamo una storia nostra da raccontare, se solo ce la fossimo ricordata.
Oggi, benché sembri crescere la consapevolezza storica diffusa, in realtà non siamo messi molto meglio. Così, per dire, sempre in riferimento alla riscoperta del castello di Sassari, basta leggere una cronaca giornalistica sull’apertura al pubblico del monumento per imbattersi nella stessa forma di rimozione della nostra storia. Centotrenta anni fa aveva portato ad abbattere il castello, oggi ne fa raccontare una storia monca, falsa. Non si fa infatti la minima menzione, tra le altre cose, del lungo periodo in cui Sassari fu una città giudicale e per dieci anni persino capitale di ciò che rimaneva del regno di Arborea. Ignoranza della giornalista? Certo. Ma non è una colpa individuale né un caso isolato.
Analoghe ricostruzioni smemorate si riscontrano presso moltissimi luoghi storici sardi testimoni del medioevo e dell’età moderna. Anche nelle presentazioni del castello di Bosa, per esempio, si parla diffusamente dei Malaspina e degli aragonesi, ma mai degli Arborea. Eppure ciò che rimane di quel maniero è prevalentemente di epoca giudicale, così come è giudicale la bella chiesa bosana di San Pietro Extramuros (il cui architrave non lascia spazio a dubbi).
Del resto le tantissime chiese romaniche sarde sono quasi sempre attribuite a un presunto romanico pisano, collegato – direttamente o per allusione – alla famosa (benché fantasiosa) dominazione pisana (e genovese!) dell’Isola. Si tratta invece, come saprebbe chiunque se la nostra storia fosse conosciuta, di chiese giudicali, alla cui edificazione forse in alcuni casi parteciparono maestranze specializzate provenienti anche dalla Toscana e che a volte riprendono stilemi del romanico italico (ma non solo pisano o toscano, in realtà).
Questi sono solo pochi esempi di un fenomeno largamente diffuso. Il processo di acculturazione dei sardi si è fondato molto anche su questa sistematica cancellazione della nostra storia dai luoghi, oltre che dai libri.
Che i mass media principali e le università italiane in Sardegna continuino imperterriti a perpetuare questa narrazione egemonica non depone certo a loro favore. Ma a chi importa? L’indifferenza della politica su questi temi, più che scandalosa è perfettamente conseguente: va di pari passo con la sistematica indifferenza per i nostri problemi materiali.
Perché è più facile dominare una terra e un popolo a cui si sia tolto qualsiasi valore. È più facile ricorrere al ricatto occupazionale, anche quando comporti l’avvelenamento della terra, dell’aria e dell’acqua, se ai nostri luoghi non riusciamo ad attribuire alcun significato che non sia immediatamente utilitaristico. E allo stesso modo si può contare sulla remissività generalizzata anche in presenza di offese e deprivazioni violente, di evidenti violazioni di diritti (come nel caso delle servitù militari, o della vertenza entrate, o della questione trasporti), se le si fa subire a una popolazione dimentica di sé, della propria soggettività storica.
Non sarà mai troppo accorato l’appello a riappropriarci della nostra storia. Non per esaltarci con improbabili vanterie megalomani (speculari alla depressione che ci schiaccia), ma semplicemente per capire chi siamo, il nostro presente, il nostro posto nel mondo, ed essere così in grado di progettare il nostro futuro.