“C’è un giudice a Cagliari”, scrive Giorgio Meletti nell’incipit del suo pezzo sulla sentenza del TAR relativa all’affaire Capo Malfatano. È inevitabile parafrasare Brecht, in questo caso. Perché siamo in presenza di un evento che ha del letterario, tanto nel suo esito quanto nei suoi protagonisti.
Un uomo solo, un vecchio pastore, Ovidio Marras, si oppone a una cricca di grandi speculatori edilizi, il Gotha della rapace imprenditoria italica, e li sconfigge. Un’associazione ambientalista, Italia Nostra, ricorre al TAR contro gli atti amministrativi che hanno dato il via libera alla speculazione immobiliar-turistica e vince la causa. E l’avvocato che ne patrocina l’istanza è il figlio di Salvatore Satta. Più Giorno del giudizio di questo, si muore!
Un alone mitico avvolge questa vicenda, dunque, almeno riguardo a questi esiti. E viene da pensare che in fondo questo imperfettissimo mondo umano troppo umano, tra tante brutture, contenga anche i germi della giustizia. Non di quella trascendentale, astratta, assoluta, spesso crudele e lontana (zustissia in sardo è una brutta parola), ma quella tutta relativa e terrena che coincide con ciò che è giusto nel momento, in questo spazio e in questo tempo.
Dopo i primi istanti di soddisfazione, tuttavia, si fa strada una sensazione di inappagamento, di assenza. Non è solo per la circostanza che si tratti di risultati ancora parziali, su cui non è lecito farsi illusioni. C’è anche qualcosa di più della semplice prudenza. È come se dovessimo constatare ancora una volta che per arrivare a un risultato così semplicemente giusto ci sia voluto un giudice, anzi due giudici, e che il risultato sia stato ottenuto a dispetto di una buona fetta della popolazione interessata, della politica locale e di quella sarda in generale.
La vicenda della speculazione cementifera a Capo Malfatano e Tuerredda è una macchia grande e difficile da eliminare sulla coscienza di troppi soggetti, pubblici e privati, individuali o collettivi. E ha un significato politico profondo.
I partiti maggiori sono da sempre favorevoli al progetto, nel centro-destra come nel centro-sinistra. La stessa giunta Soru, pur facendo della battaglia paesaggistica un suo tratto fondamentale, operò affinché fossero salvi gli interessi dei grandi gruppi che avevano messo i loro occhi avidi su quell’angolo di mondo, e della nostra terra. Che la giunta Cappellacci poi abbia avallato senza troppe remore tale operazione non desta meraviglia. Non desta meraviglia nemmeno che le amministrazioni comunali di Teulada si siano rese complici della devastazione in corso. Né la desta il fatto che una buona fetta della popolazione locale si sia schierata a favore degli speculatori e contro il loro concittadino Ovidio Marras.
Ed è proprio nella mancanza di meraviglia per queste scelte degeneri, per questa meschinità così palese, che si annida il nodo della questione. È lì la causa dell’inappagamento che alla fine questa vicenda ci infonde.
Il senso di noi stessi nel mondo non può essere stabilito da una sentenza di tribunale. La nostra dignità collettiva non è salvata dall’operato del giudice “a Berlino”. Non siamo stati noi a sconfiggere il male. Anzi, per quanto riguarda la nostra parte, noi eravamo schierati per l’ingiustizia. Noi come collettività storica, impersonata e rappresentata dalle autorità politiche elette, sia a livello locale sia a livello più generale. Se fosse stato per la libera determinazione delle nostra scelte, Capo Malfatano sarebbe oggi totalmente nelle mani dei vari Caltagirone e Marcegaglia e non sarebbe più “de totus“, come puntualizza Ovidio Marras a chi gli chiede se quei luoghi siano suoi. Nella soddisfazione per le sentenze dei tribunali si annida dunque la consapevolezza della debolezza politica.
Quando non avremo bisogno di un giudice a Berlino, ma sapremo governare i nostri luoghi e la nostra vita sulla base dell’interesse generale e con la stessa dignità dimostrata da Ovidio Marras e la determinazione mostrata da un pugno di persone iscritte a una associazione nemmeno sarda, solo allora potremo legittimamente considerarci vincitori e prendeci la responsabilità storica di noi stessi. Oggi come oggi quelle sentenze suonano come una nostra sconfitta.