Il dibattito suscitato dalla (ennesima) vertenza Alcoa è stato animato recentemente da uno scambio di vedute, sulle pagine dei giornali, tra Francesco Pigliaru (economista, ex assessore regionale della giunta Soru), Antonello Cabras (senatore, ex presidente di regione, ecc., PD) e Paolo Maninchedda (presidente della Commissione Autonomia in consiglio regionale, PSdAz). I punti di vista sono diversi e sono diverse (ma come vedremo non tutte incompatibili) le prospettive evocate.
Il primo dato importante che dobbiamo rilevare è che finalmente sul tema dell’industrializzazione della Sardegna si prova in qualche misura a uscire dagli schemi fin qui egemonici per proporre una visione nuova. La retorica autonomista ha sempre ammantato la stagione dei Piani di Rinascita di un’aura tra l’ineluttabile e il rassicurante. La versione dominante vuole che l’industrializzazione della Sardegna fosse al tempo una misura necessaria e addirittura lungimirante per far uscire l’Isola in tempi brevi dal suo stato di arretratezza economica, sociale e culturale (dato per dimostrato). Se ne rivendicano successi ed esiti, pur ammettendo che non è stato il percorso lineare e progressivo che ci si aspettava. Certi errori di valutazione – si argomenta di solito – erano inevitabili. Quelle scelte allora sembravano le migliori possibili e solo col senno di poi se ne possono intravvedere i limiti. Il compito, oggi, sarebbe quello di rilanciare l’idea della Rinascita, riprenderne lo spirito, adeguandolo ai tempi, ma senza rinunciare a ciò che è stato fatto e ai suoi fondamenti politici.
Attenzione, questa è precisamente la versione riproposta da chi, nel dibattito da cui siamo partiti, rappresenta gli assetti di potere egemonici in Sardegna negli ultimi settant’anni: Antonello Cabras. Una lettura delle cose basata su una contestualizzazione artificiosa e falsificante. Come è facilmente dimostrabile (e come qualcuno pur dovrebbe ricordare), sin dagli anni Sessanta si esprimevano seri e motivati dubbi sull’approccio da cui discendeva il Piano di Rinascita, se ne indicavano criticità e limiti e soprattutto possibili alternative. Era risaputo che si proponeva alla Sardegna un modello industriale obsoleto e dal fiato corto, in una condizione geografica, logistica, economica e sociale del tutto inadatta a sostenerlo proficuamente. Lo stesso Cabras amette candidamente che tale modello si poteva reggere sostanzialmente sul massiccio investimento da parte dello stato, sul debito posto a carico della collettività, insomma. Non dice, Cabras, che gli scopi reali di tutta l’operazione non erano certo lo sviluppo economico e civile della Sardegna, quanto da un lato il drenaggio di risorse pubbliche senza grandi controlli e il clientelismo più esplicito, dall’altro la disarticolazione del tessuto socio-economico e culturale della Sardegna a vantaggio del suo controllo sociale e politico. Controllo che soluzioni diverse avrebbero potuto mettere in discussione. Naturalmente entrano in gioco qui anche considerazioni di natura geopolitica, sistemica ed economica di ampio respiro, nell’ambito delle quali la Sardegna aveva il ruolo della variabile dipendente e della pedina utilizzabile a piacimento, anche e in particolare per scopi strategici di tipo militare.
Più interessanti e proficue le posizioni di Francesco Pigliaru e di Paolo Maninchedda.
Pigliaru fa un esercizio di parresia, un discorso di verità, che va a scontrarsi col discorso ancora oggi prevalente nella politica e nei mass media sardi. Riconosce e segnala la necessità di mutare paradigma produttivo, non ha paura di evidenziare come il modello dell’industria pesante applicato in Sardegna (e nel Sulcis in particolare) non solo sia evidentemente fallimentare, ma debba essere sostanzialmente abbandonato. Non senza porre la condizione di un reddito dignitoso da garantire ai lavoratori oggi in fase di licenziamento e non senza auspicare una riconversione economica dell’area. Il limite di questa posizione, a mio avviso, consiste nella sua accettazione passiva dei paradigmi teorici della scuola classica (o neoliberista, chiamiamola come vogliamo): l’affidamento religioso al mercato come sommo e neutro regolatore di tutte le cose. Laddove al posto di “mercato” bisognerebbe leggere (e direi anche scrivere) “capitale”. Il capitale e le sue logiche intrinseche. Che non costituisce un soggetto storico monolitico e impersonale, né un processo asettico e a-storico, ma ricomprende in sé interessi, rapporti di produzione, legami tra elementi sistemici di tipo fisico, geografico ed economico, nonché relazioni umane. Manca inoltre, nella lettura del prof. Pigliaru, una visione generale entro cui inquadrarla. Non basta infatti riferirsi genericamente agli scenari globali senza indicare un ruolo possibile per la Sardegna (di cui in fondo stiamo parlando). In che termini si lega la vertenza industriale alle altre vertenze aperte? E tutte insieme come si inseriscono nella questione della nostra soggettività politica collettiva, della fiscalità, della pianificazione energetica e infrastrutturale, della sovranità?
È un limite che coglie e prontamente segnala Maninchedda, nella sua replica. Maninchedda non è convinto dell’adesione pedissequa alle dinamiche generate dal capitale internazionale né della rinuncia a buon mercato al settore manifatturiero. Ma soprattutto – e qui sta la parte più interessante – ricollega giustamente la questione a quella delle entrate e in ultima analisi a quella della sovranità.
Benché in apparenza contrastanti, le due visuali proposte non sono parallele, ossia destinate a non incontrarsi e dunque a non sovrapporsi. Entrambe contengono elementi di novità e spiragli di apertura verso un nuovo scenario. Elementi che è doveroso accogliere con la massima considerazione. Le valutazioni di Pigliaru sull’andamento dell’economia globale sono sorrette dai dati: da questo punto di vista non ci piove. Così come è ineludibile la questione da lui posta della riconversione economica accompagnata da un sostegno ai lavoratori e alle famiglie. L’obiezione di Maninchedda vi si può sovrapporre bene, laddove egli offre una prospettiva altra, nazionale (nel senso di sarda), al problema. La congiunzione delle due prospettive nei loro elementi di novità, rispetto alla stantia visione egemonica rappresentata da Cabras, ci offre una possibile soluzione compiuta e pragmatica, pronta per diventare la base di una grande battaglia politica.
È inconfutabile che la politica industriale in Sardegna sia stata fallimentare, da ogni punto di vista: dal punto di vista sociale, dal punto di vista occupazionale, dal punto di vista culturale e dal punto di vista (non dimentichiamolo mai) ambientale. Difendere i Piani di Rinascita oggi pare offensivo, oltre che miope. Sono altri i paradigmi cui dovremmo affidarci. Lo erano a dirla tutta anche negli anni Cinquanta e Sessanta, quando si crearono i presupposti per la drammatica crisi odierna. Li si crearono sostituendo il sistema del credito di tipo mutualistico e diffuso con un monopolio bancario tarato su modelli estranei (anche come interessi) alla Sardegna. E li si crearono accogliendo passivamente tutte le servitù che ci vennero imposte (quelle militari in primis, ma anche quelle turistiche e quelle industriali, appunto), generando le condizioni materiali della disoccupazione e dell’emigrazione da usare come arma di ricatto (il famoso ricatto occupazionale). È lampante che quel modello sia da abbandonare più che in fretta. Non vale l’argomentazione (usata da Cabras) che non si possa costruire nulla sopra le macerie. Perché le macerie ci sono già e non sono solo quelle industriali, ma anche sociali e culturali: si vedano le tristissime manifestazioni dei lavoratori di questi giorni, prive di una guida responsabile e di uno scopo realistico, deprivate di contenuti politici e sociali, involute nella difesa impossibile di una realtà che già non esiste più. E sono macerie ambientali: la situazione igienico-sanitaria ed ecologica del Sulcis (così come di Porto Torres o delle aree sottoposte a servitù militari) è ormai insostenibile.
La soluzione di sintesi dunque consisterebbe in quel che segue: a) abbandonare immediatamente un modello produttivo ormai morto e irrecuperabile, oltre che dannoso; b) procedere alla tempestiva opera di bonifica delle aree interessate, con fondi messi a disposizione prima di tutto (per obbligo di legge) dalle aziende che hanno prodotto l’inquinamento e con l’impiego di manodopera locale, debitamente formata; c) pianificazione economica fondata sulle risorse del territorio, senza scartare gli ambiti del manifatturiero dove si possa reggere la concorrenza internazionale; d) appropriarsi del controllo fiscale, per adesso dentro l’ordinamento giuridico dato, attraverso gli strumenti già esistenti e destinare una cospicua dose di investimenti a ricerca, innovazione, università, sperimentazione (specie in campo energetico, una delle nostre tare principali).
Non si tratta di coltivare utopie, ma di affrontare la realtà. E lo si può fare solo ponendo la Sardegna e i sardi al centro del proprio sguardo sia teorico, sia politico. Non è possibile sostenere che gli interessi e le legittime aspettative dei sardi possano trovare soddisfacimento nell’ambito dello stato italiano, il quale di suo ha ragioni e interessi altrettanto legittimi, ma incompatibili con i nostri (come giustamente sottolinea Maninchedda). È un percorso di sovranità, certo, ma di sovranità agita e – come si usa dire – proattiva. Un modo virtuoso per far sì che la crisi sia una fonte di opportunità anziché di mortificazione. L’unico vero problema è chi potrà farsi carico di gestire questa transizione, dato che la classe politica oggi al potere ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo. È un problema che le nostre forze intellettuali e i cittadini dovrebbero porsi con forza, senza inutili rivendicazioni e senza attendersi salvezza dall’esterno, che sia dall’Italia o da qualche multinazionale.