Su SardegnaQuotidiano del 2 agosto viene riportata una intervista concessa al Mattino di Napoli dall’armatore Aponte, uno della congrega che ha acquistato la Tirrenia, garantendosi il pacco di milioni destinato alla “continuità territoriale” tra Sardegna e Italia. Pare che Aponte, magnate delle crociere e delle navi porta-conteiner, abbia serenamente dichiarato di infischiarsene dei sardi o qualcosa di molto simile. La notizia non ha suscitato grande scalpore. Forse per assuefazione. Del resto che i sardi siano il vero problema della Sardegna siamo bravi a dircelo da soli, a tutti i livelli.
Più diplomatiche, ma non meno crude, in fondo, le parole dell’amministratore delegato della CIN, la società che ha acquisito la Tirrenia, Ettore Morace. Si guarda bene dal parlar male di chichessia, a parte qualche critica alla giunta regionale sarda, e di sicuro non esprime alcun giudizio sui sardi in generale. Eppure dalle sue parole traspare una considerazione precisa, benché implicita: i sardi dovrebbero stare al loro posto e caso mai ringraziare che qualcuno si prenda la briga di farli viaggiare per mare.
Tutta questa operazione, al di là degli aspetti contingenti e del problema strutturale dei trasporti marittimi in sé considerato, mi ha fatto venire in mente i dibattiti di centocinquanta anni fa o giù di lì, quando si doveva impostare la costruzione delle ferrovie in Sardegna ormai diventata “italiana”. La soluzione che venne adottata fu – inopinatamente e senza alcun senso logico, politico, economico e sociale – l’abolizione degli ademprivi. Gli ademprivi erano l’ultimo residuo di uso comunitario del territorio rimasto ai villaggi sardi, e la loro soppressione arrivava dopo le pesantissime ripercussioni dell’Editto delle chiudende, dell’abolizione del feudalesimo (con riscatti sovradimensionati fatti pagare alle popolazioni soggette), dell’imposizione dell’imposta fondiaria unica (uguale in Sardegna come in Piemonte) e del catasto (unificato anch’esso, con conseguenti vessazioni tributarie e confische di beni mobili e immobili a termini di legge: non ricorda qualcosa?). Insomma, la deprivazione materiale istituzionalizzata per tantissime famiglie, se non per intere comunità. Cui inevitabilmente seguirono rigurgiti di protesta popolare anche violenta (vedi i moti de su Connottu, a Nuoro, nel 1868).
Ebbene, in quell’occasione, alle obiezioni sui metodi e sul contenuto delle decisioni prese, gli esponenti delle forze governative (era l’epoca della Destra storica) rispondevano piccati che se le ferrovie dovevano essere fatte in Sardegna, giacché si trattava di un investimento che non aveva ricadute sul resto del territorio statale, dovevano pagarsele i sardi, in un modo o nell’altro.
Il ragionamento non faceva una piega. A tal punto che è rimasto pressoché immutato nel tempo fino ai giorni nostri. A nessuno in Italia viene in mente di avere qualcosa a che fare con questo diavolo di isola lontana, buona giusto per farci le vacanze in estate. E se per caso qualcosa ci è concesso, dovremmo solo ringraziare e non stare a sottilizzare troppo, dato che si tratta appunto di una concessione non dovuta.
Il bello in tutto questo non è tanto il sapore razzista o quanto meno cinico di certe prese di posizione, di certe scelte politiche di matrice tipicamente top-down, compiute al di là di qualsiasi reale considerazione delle necessità, degli interessi e della volontà dei sardi. Il bello è la sostanziale complicità – o, se va bene, l’acquiescenza impotente – della classe politica sarda. Fenomeno nient’affatto contingente, bensì strutturale anch’esso, esattamente come tutte le magagne, una per una nessuna esclusa, che ci affliggono da che siamo italiani.
Magari fosse questione di un Ugo Cappellacci qualsiasi!