In ritardo all’appuntamento

Mentre dalle nostre parti si accumula una collezione da record di schiaffi, ceffoni e botte assortite, il mondo intorno a noi prosegue nella sua corsa verso scenari conflittuali che rischiano di trovarci totalmente impreparati.

La Spagna va ad elezioni anticipate in un momento difficilissimo sia dal punto di vista economico-finanziario, sia da quello sociale, nonostante i grandi sforzi di apertura e modernizzazione fatti dal governo Zapatero in questi anni. In Turchia emerge un conflitto potenzialmente esiziale tra governo e vertici militari, nel bel mezzo di una fase e in un’area geopolitica che definire delicate è a dir poco eufemistico. Il Mediterraneo, intanto, non mostra segni di stabilizzazione, sia che si getti lo sguardo sul Nord-Africa o sul Vicino Oriente, sia che si guardi alla sorte della Grecia. L’Italia, ormai a un passo dal fallimento di fatto, si balocca con beghe di potere e manovre torbide di ogni tipo e colore. E intanto gli USA (gli USA!) rischiano a loro volta un clamoroso default finanziario, che si abbatterebbe su una economia e una società già pesantemente provate da una profonda crisi strutturale: una nemesi storica delle più clamorose, benché nient’affatto inedita o imprevedibile.

Non è difficile prevedere che questa lunga transizione – iniziata ormai da decenni (diciamo almeno dai primi anni Settanta del secolo scorso) – stia per entrare in una fase ancor più drammatica e densa di eventi e di epifenomeni.

La cosa che preoccupa – o dovrebbe preoccupare chi abbia un minimo di sale in zucca – è che la Sardegna oltre ad essere una provincia marginale, lontana e demograficamente insignificante, in tale situazione diventerà facilmente una pedina sacrificabile. Sacrificabile a interessi specifici, di tipo speculativo o banalmente capitalista; sacrificabile in nome di logiche geopolitiche esogene e decisamente difficili da intercettare e modificare, nella nostra posizione subalterna; sacrificabile in termini sociali, politici, economici dentro il contesto dello stato italiano.

Pensiamo solo alle infrastrutture, all’istruzione, ai trasporti e a quanto poco sarà possibile aspettarsi da parte dello stato italiano, rispetto al pochissimo che già garantiva nel passato. Ma, ampliando lo sguardo, pensiamo a cosa significherà in termini di approvvigionamento alimentare un aumento dei costi di trasporto. Se l’aumento superasse una certa soglia limite, stabilita per altro da una grande distribuzione totalmente staccata dalle esigenze e da qualsiasi forma di controllo da parte nostra, un’isola che consuma cibi e bevande che provengono per l’80% dall’esterno quanto e come potrebbe sopportare una caduta dell’import alimentare?

Così, non stupisce se anche in aree politiche tributarie verso i centri di potere italiani (o meglio, nei loro organi di comunicazione) l’ipotesi indipendentista assuma quasi d’un tratto un peso e occupi uno spazio fino ad oggi inediti. I prodromi c’erano, intendiamoci. Sono almeno otto anni, dalla sollevazione popolare contro la prima ipotesi di centrali nucleari sull’Isola (2003), che la prospettiva dell’autodeterminazione e la rivendicazione di sovranità non sono più tabù nello scenario politico ed anche mediatico sardo. Un ruolo positivo negli anni scorsi lo hanno avuto anche le nuove idee e il nuovo approccio promossi dalla parte più seria e credibile del mondo indipendentista. Ma anche qui è come se si stesse verificando un salto di fase. Il che va ben al di là di qualsiasi discorso di schieramento partitico e oltrepassa i confini dell’indipendentismo politico così come sviluppatosi negli anni e fino ad ora.

In parte è certamente una risposta alla crisi attuale. La quale, però, da tanti è chiaramente percepita non come una contingenza superabile, ma come una vera faglia strutturale, ormai ineludibile. E non hanno comunque meno peso sia la lenta ma costante crescita della identificazione nazionale dei sardi, sia la domanda di una nuova narrazione di noi stessi. Processi questi alimentati in particolare dalle nuove generazioni (dai 40 anni in giù, diciamo, più o meno), sempre più coinvolte nei processi in corso nel mondo, sempre meno legate a mentalità subalterne e/o provinciali.

Ciò lascia un barlume di speranza in una possibilità di emancipazione storica della Sardegna che non sia mera risposta passiva a una situazione di abbandono, ma piena e concreta assunzione di responsabilità collettiva verso la nostra sorte.