I segnali della portata di questa sconvolgente transizione storica, in cui siamo chiaramente immersi, non sembrano scalfire l’andamento quotidiano della politica nostrana. Benché scossa dagli esiti elettorali e referendari, la classe dominante che mantiene opportunamente la Sardegna in condizioni di impoverimento economico e sociale non pare rendersi conto di quanto sta succedendo, né avere la percezione di quanto può ancora succedere.
D’accordo, la Grecia è lontana. Ma non poi così tanto. Come non è lontano il Maghreb e non è lontana la Spagna.
La Sardegna soffre uno dei tassi di disoccupazione giovanile più alti in ambito europeo, paragonabile a quello spagnolo. Ha carenze strutturali drammatiche (si veda l’ultimo rapporto Crenos in materia), vede la scuola pubblica smantellata, l’università in coma, alcuni settori economici prossimi alla scomparsa e altri in gravi difficoltà, una povertà crescente e non solo in termini materiali.
Le risposte? Non pervenute. Beghe e regolamenti di conti tra correnti e fazioni, nella migliore tradizione sardo-italiana (la versione locale delle dinamiche deleterie tipiche dello stato cui apparteniamo), idee manco a parlarne.
Eppure di cose da fare ce ne sarebbero. Farsi ridare i soldi delle imposte dei sardi dovuti dallo stato (almeno i 5 miliardi pattuiti da Soru con Prodi); agire sulla questione delle accise per fare in modo che oltre a inquinamento e devastazione sociale la SARAS e gli altri ci mollino anche i relativi balzelli (una cosetta come 3 miliardi di euro all’anno, ricordiamolo); un intervento urgente sulle entrate, con definitiva estromissione di Equitalia e appropriazione da parte della Sardegna sia del controllo fiscale sia dell’esazione dei tributi; una politica dei trasporti che ci affranchi sia dagli interessi dell’Italia sia da quelli dei privati, garantendo il diritto alla mobilità; una pianificazione in materia energetica degna di questo nome; la riappropriazione delle aree militari e di quelle industriali dismesse o in via di dismissione, da sottoporre a una vasta opera di bonifica e riconversione.
Non sarebbe un bel programma di governo? E sono tutte cose assolutamente fattibili anche da subito.
Ma occorrerebbe mettere in discussione tanto gli equilibri tra centri di potere e di interesse che di fatto governano la Sardegna, quanto il regime di dipendenza indotta ad essi funzionale. Quindi il ruolo stesso degli intermediari di mezza tacca che governano l’Isola per conto terzi. Magari la scomparsa del proconsole berlusconiano Romano Comincioli, vero governatore dell’Isola nell’era arcoriana, genererà qualche fibrillazione in più nella già scossa maggioranza destrorsa e affaristica che domina la regione. Ma cosa volete che succeda, in termini concreti? Se finisce il berlusconismo, rimangono tutti i problemi che esso ha incarnato (più che generato), accentuati dalla nostra condizione marginale e passiva.
Pensiamo solo alla faccenda delle servitù militari. Le indagini della magistratura minacciano di sollevare il coperchio su questioncelle molto ma molto riservate, le cui conseguenze pratiche sulle popolazioni, sul tessuto economico, sociale e culturale, sono solo effetti collaterali, “esternalità” tollerabili (per dirla con gli economisti). La nostra classe politica cerca anche di fare la voce grossa. Con che esiti? Penosi. Pochezza dei soggetti che occupano ruoli politici e istituzionali? Certamente sì: è abbastanza evidente, mi pare. Ma c’è anche il nodo strutturale non superabile né eludibile della forzosa subalternità di qualsiasi necessità e diritto dei sardi ai superiori interessi dell’Italia. Lo dice chiaro, il buon ministro La Russa: “per le predominanti esigenze dello stato”.
Niente da dire: se siamo una regione dello stato italiano dobbiamo subire. Contiamo troppo poco demograficamente e geograficamente per poter aspirare a contrattare con l’Italia alla pari. Con buona pace dei federalisti, sovranisti, para- o pseudo-indipendentisti che considerano quello l’unico orizzonte di riferimento.