Anche se si fa fatica a ricordarsene, la Sardegna avrebbe un suo governo, incarnato dalla giunta regionale. Governo di una regione a “statuto speciale”, per giunta. Per poche che siano le sue prerogative, ci sarebbe da aspettarsi che agisse per il meglio, in nome delle esigenze collettive dei sardi e nel loro interesse.
Uso il condizionale perché è del tutto evidente che le cose non stanno così.
Ieri nel corso di una seduta del consiglio regionale sono stati pronunciati discorsi, presentate cifre, fatte dichiarazioni a proposito di entrate e uscite, voci di spesa, risorse finanziarie. La giunta regionale ha presentato un programma di finanziamenti destinati al lavoro, menando anche gran vanto di questo notevole sforzo. Altri hanno sollevato il problema della carenza delle risorse. Altri ancora hanno mosso critiche all’operato del governo regionale.
Il quadro d’insieme che se ne può trarre, al netto della retorica di parte e della propaganda mediatica, è che l’istituzione regionale fa fatica a svolgere il compito per cui esiste. A fronte delle numerose crisi settoriali e delle carenze strutturali e infrastrutturali, segnalate di recente anche dall’ultimo rapporto CRENOS (fatto 100 l’indice infrastrutturale generale italiano, la Sardegna si ferma a 52), mancano totalmente la volontà di progettare soluzioni e la capacità di reperire le fonti finanziarie e il capitale umano per attivarle.
Ma non c’è nulla che ci condanni inesorabilmente a questo destino.
Prendiamo la questione delle fonti di finanziamento. Intanto partiamo dalla constatazione amara che della famosa “vertenza entrate” non se n’è fatto ancora nulla. Lasciamo perdere l’intero ammontare di cui la Sardegna è creditrice verso lo stato italiano (parliamo di qualcosa come 10 miliardi di euro): nemmeno la cifra pattuita tra Soru e Prodi qualche anno fa (circa la metà del debito complessivo) risulta ancora riscossa dalla regione sarda. Il proposito di sollevare almeno un conflitto di attribuzione, se non proprio un contenzioso con lo stato davanti alla Corte Costituzionale, è rimasto nelle dichiarazioni diversive di Cappellacci di qualche mese fa. Sarebbero circa 5 miliardi di euro che anche rateizzati contribuirebbero notevolmente al bilancio sardo.
Poi c’è la faccenda delle accise. Si tratta di tributi sui prodotti petroliferi. Una legge dello stato consente di versarle nel luogo di commercializzazione dei derivati del petrolio. Noi abbiamo in casa una delle più grandi raffinerie del Mediterraneo (la Saras), con tutto ciò che questo comporta in danni ambientali, socio-sanitari, sociali, culturali. Però la Sardegna non percepisce un centesimo delle accise pagate ogni anno sui prodotti di questa azienda. Perché i suoi depositi commerciali non sono ubicati in Sardegna. In Sardegna c’è la produzione, e basta. Naturalmente, basterebbe che la Saras medesima con una operazione burocratica spostasse giuridicamente la sede dei suoi depositi commerciali in Sardegna e il gioco sarebbe fatto. Da parte dei Moratti sarebbe un semplice gesto di banalissima riconoscenza verso un territorio pesantemente condizionato dall’attività da cui traggono i loro maggiori profitti.
Ma i Moratti sono molto più preoccupati per la campagna acquisti dell’Inter che di queste quisquilie. I tifosi interisti sono molti di più degli abitanti della Sardegna, d’altra parte. E poi un privato fa il proprio interesse, non risponde a una sfera di interessi ed esigenze diversa, generale, collettiva, per altro geograficamente lontana. Certo, un po’ di pressione da parte dei media e della politica nostrani magari li persuaderebbe a compiere una scelta tutto sommato a costo quasi zero ma dall’alto valore civile e politico. Ma i media e la politica in Sardegna hanno altro a cui dedicarsi.
Altra strada sarebbe quella di impugnare la legge statale suddetta, quella che prevede il versamento delle accise nel luogo della commercializzazione dei prodotti petroliferi. La regione sarda ne ha piena facoltà a norma dell’art. 51 del suo statuto (legge di rango costituzionale, ricordiamolo), il quale al comma 2 recita
La Giunta regionale, quando constati che l’applicazione di una legge o di un provvedimento dello Stato in materia economica o finanziaria risulti manifestamente dannosa all’Isola, può chiederne la sospensione al Governo della Repubblica, il quale, constatata la necessità e l’urgenza, può provvedervi, ove occorra, a norma dell’art. 77 della Costituzione.
Insomma, qualche risorsa per accaparrarsi legittimamente l’ammontare di queste imposte ci sarebbe. E stiamo parlando di una cosuccia come 2,5 miliardi di euro l’anno, se non di più.
Altro capitolo doloroso, i finanziamenti da parte dell’Unione Europea. Mentre si accendono mutui per pagare le spese correnti e non si sa più da che parte togliere i soldi per le emergenze viene fuori che la regione Sardegna sta rinunciando per propria esclusiva responsabilità a una cospicua mole di denaro altrimenti a disposizione. La cosa è stata segnalata alla giunta e a Cappellacci dal commissario europeo Hahn, responsabile delle politiche regionali. Al danno per il mancato utilizzo attuale di questi fondi si somma quello relativo alla decurtazione di quelli futuri, proprio perché quelli disponibili non li abbiamo spesi. Tra l’altro, anche una splendida figura a livello internazionale. Complimenti.
In definitiva, solo a proposito di queste tre questioni, stiamo parlando di diversi miliardi di euro che potremmo e dovremmo avere a disposizione per tenere in piedi strutture e infrastrutture fondamentali, adeguare quelle esistenti alle nostre esigenze reali, avviare a soluzione le varie vertenze aperte e progettare lo sviluppo e le condizioni di un maggiore benessere dei sardi. Potremmo farlo subito, adesso.
E qui sta il busillis. La congrega politico-affaristica-parassitaria che domina la Sardegna ha bisogno dell’impoverimento e della debolezza strutturale del nostro tessuto socio-economico per sopravvivere. Non ha come scopo il governo della cosa pubblica ma l’intermediazione con i centri di potere e interesse esterni da cui dipende la propria legittimazione.
A questo però si somma la nostra debole identificazione collettiva, un’appartenenza menomata. Noi stessi non ci consideriamo un soggetto politico a tutti gli effetti, ma perseveriamo nel coltivare la nostra sindrome di subalternità. Pensiamo agli operai della Vinyls, in pellegrinaggio dal presidente della repubblica italiana. A chiedere cosa? Di essere assunti tutti al Quirinale? Non si sa. Notevole però uno dei commenti, dopo l’incontro: “Sembrava uno di noi”. Ma dai, sul serio? Non era verde con le antenne? Alle volte le sorprese! E questo è solo l’ultimo di una sequela di episodi mortificanti e del tutto inutili ai fini pratici.
Se non siamo noi a guardare a noi stessi come a una collettività portatrice di esigenze, interessi e diritti, sarà impossibile ottenere che siano gli altri ad attribuirci tale soggettività. La “rivolta dell’oggetto” deve partire da noi. Ma per riuscirci dobbiamo abbandonare qualsiasi pulsione rivendicazionista, lo spirito di sudditanza che ci fa preferire il ruolo del servo o del mendicante alla mensa del signore. Dobbiamo imparare ad abitare il nostro tempo e il nostro spazio come padroni di casa non come ospiti poco graditi in una casa altrui. E come padroni di casa dobbiamo saperla amministrare, con le nostre forze e le nostre risorse. Economia vuol dire questo, in fondo.
Dipende da noi e non abbiamo scuse.