Calcio, appartenenze, politica

Il calcio non è uno sport, è un gioco. E per molti è il più bello del mondo. Ma a parte l’aspetto ludico, da cento anni a questa parte, è anche un catalizzatore di materiali mitologici, di processi di identificazione, ed è anche una fonte di affari (non sempre limpidi) e un elemento del dominio del capitale sul nostro mondo umano.

Il calcio è tutto questo insieme e a causa di ciò riesce  a mantenere il suo fascino, nonostante l’evidente crisi che la corruzione legata ai soldi che vi girano dentro e intorno stanno facendo maturare, ennesimo sintomo patologico della lunga fine della modernità.

Per questo suo apparato di fascinazioni, simbologie e richiami mitici, il calcio ha anche spesso una valenza politica. Sia in senso lato (in quanto riguarda la polis, la collettività), sia in termini più precisi, quando a una squadra si associano significati ulteriori rispetto a quelli meramente ludici, campanilistici o affaristici.

Pensiamo al ruolo ricoperto da alcune squadre per le proprie comunità di riferimento: Barcellona e Athletic Bilbao in Spagna, per esempio, o le nazionali di Scozia, Galles e Irlanda del Nord. A proposito di queste ultime, è di questi giorni la polemica sulla pretesa che alle prossime olimpiadi di Londra si presenti una sola nazionale di calcio britannica.

A tali dinamiche non è estranea la passione di molti sardi per la squadra del Cagliari, vista come una sorta di rappresentante della Sardegna in un ambito così rilevante come quello calcistico e quello calcistico italiano in particolare, per di più con un rapporto almeno teorico di parità con tutti gli altri partecipanti. Elemento che a tanti di noi dà un senso di riscatto, data la nostra ben nota sindrome di subalternità congenita.

Per questo quando il Cagliari vinse lo scudetto nel 1970 e Gianni Brera dichiarò che finalmente la Sardegna era entrata in Italia, i primi a crederci e a gloriarsene furono proprio i sardi. Ma sugli effetti, a volte contraddittori, di questa epopea sportiva qualcosa l’ho già detta e non ci torno su.

Vorrei invece rimarcare un certo salto di qualità nel discorso, magari solo occasionale e fine a se stesso, venuto fuori non nelle chiacchiere da tzilleri o nelle discussioni sulla Rete, bensì ben dentro il circuito mediatico principale, in televisione. Un servizio del noto giornalista Vittorio Sanna introduttivo alla campagna acquisti e cessioni del Cagliari. Sentire parlare di “esercito nuragico” e di “uno stato” che si costruisce “sotto una bandiera fatta a forma di maglia” non è cosa di tutti i giorni. È un’invasione di campo (per rimanere in tema) della politica – e che politica! – nell’iperuranico mondo del pallone in salsa sarda, tradizionalmente più arma di distrazione di massa, instrumentum regni a difesa dello status quo, che suscitatore di questioni forti, problematiche.

La domanda è sorta spontanea: che succede? Mah… Probabilmente non succede niente. Però forse è un segnale. Da non sottovalutare.