La Sardegna, come si sa ma a volte si fatica ad esemplificare, presenta caratteristiche sociali e culturali sue proprie.
Senza stare a ricostruire storicamente questa peculiarità, basta fare cenno a una delle ultime notizie relative alla figura femminile e alla sua sessualità.
Le donne sarde sono quelle che in Europa fanno il maggior uso della pillola anticoncezionale. Rispetto all’Italia la percentuale è quasi doppia.
Non so se questo abbia a che fare con la vexata quaestio del matriarcato sardo (una mistificazione grossolana in realtà, se la parola “matriarcato” viene presa nel suo senso preciso, storico e antropologico). Certo però ci dice qualcosa su un retaggio che è difficile negare o ignorare.
Rispetto ad altre culture mediterranee, sin da che se ne ha testimonianza, la Sardegna ha sempre riservato alla donna un ruolo particolare.
Già il matrimonio cosiddetto “alla sardesca” prevedeva una sostanziale parità tra marito e moglie (la cui famiglia non doveva portare la dote). E le misure previste nella Carta de Logu arborense riconoscevano alla donna una propria soggettività giuridica e patrimoniale, sia in caso di violenza subita, sia in caso di matrimonio con un reo sottoposto a confisca dei beni (condanna alla quale appunto erano sottratti quelli della consorte).
Insomma, senza parlare di posizione dominante o semplificazioni del genere, è indubbio che la donna sarda non sia mai stata reificata e ridotta a mero oggetto di scambio o a semplice servitrice dell’uomo. La rigidità dei ruoli sociali tradizionali non intacca tale riconoscimento di dignità alla figura femminile.
In particolare, la donna sarda è sempre stata padrona del proprio corpo. Forse da questo proviene quella maggiore libertà di gestire la propria sfera sessuale che l’uso della pillola anticoncezionale segnala.
A meno che questo riscontro statistico non riveli invece la scarsa considerazione che le donne sarde riversano sui maschi loro connazionali. Il che, se vogliamo, non sarebbe proprio inspiegabile.