Senza grande clamore è arrivato e trascorso l’ennesimo anniversario: quello del maggio francese. Stiamo parlando del Sessantotto e di una delle sue manifestazioni più memorabili. Il grande sciopero generale francese, con centinaia di migliaia di lavoratori e studenti a sfilare per i boulevards di Parigi, e tutto ciò che lo precedette e ne seguì.
Del Sessantotto si parla, in questo periodo, com’è inevitabile che sia. Ma a ben guardare, come sempre su questo tema, il dibattito si riduce allo stucchevole alternarsi di dichiarazioni polemiche tra nostalgici e rinnegati. Comunque, tutto all’interno di una schiera di commentatori meno eterogenea di quanto possa apparire, composta com’è prevalentemente da ex compagni, ex colleghi, ex qualcosa. Forse è questo il limite di qualsiasi analisi fin qui prodotta sul fenomeno Sessantotto: manca una critica obiettiva, distaccata, dall’esterno. Troppo coinvolgimento personale e troppi interessi di bottega da difendere tra protagonisti e testimoni diretti degli eventi.
L’impressione, a quarant’anni di distanza, è che non si trattò di un momento propriamente rivoluzionario, bensì del limite massimo toccato dalla civiltà capitalista occidentale. Non si andò oltre perché nessuno intendeva realmente farlo e tutte le parole d’ordine di rovesciamento delle strutture portanti della civiltà contemporanea rimasero slogan giovanili, buoni per far colpo sulle ragazze e per scandalizzare i benpensanti. Tant’è che la maggior parte dei leader del Movimento, dagli anni Ottanta in poi, sono finiti molto disinvoltamente tra le schiere della fazione neoconervatrice più feroce, portatori di un discorso diametralmente opposto a quello che in gioventù cercavano di imporre dogmaticamente al prossimo, un discorso aberrante, basato su argomenti, anzi assiomi, esplicitamente reazionari e fondamentalisti. La schiatta di giovani del Sessantotto, quelli che occupavano le università, che volevano liberarsi dei vincoli borghesi e dell’ipocrita morale conservatrice dei lro genitori e insegnanti, ne sono diventati i più ferventi e radicali epigoni. Aveva dunque ragione Pasolini quando stigmatizzava le manifestazioni di piazza come rigurgiti ribellistici senza significato politico della gioventù borghese benestante, indicando nei poveretti obbligati a metttere la divisa e prendersi le sassate (e spesso rispondere a manganellate se non peggio) i veri figli del popolo, quelli in nome dei quali si proclamava di lottare? Chissà. Pasolini aveva la vista lunga e un’intelligenza profonda, la sua critica era fatalmente inattuale, come sono tutti gli spiriti veramente liberi e onesti. Certo è che l’elefante rivoluzionario (più dell’immaginario che dei processi storici reali, forse) ha partorito il ratto (deforme e immondo) della reazione più virulenta. I processi che ci hanno condotto nella bella situazione attuale nascono come risposta a quell’altro mondo possibile che gli entusiasti del Sessantotto attribuiscono a quel periodo (certo, uno dei più divertenti della storia dell’umanità), ma che forse, più compiutamene e concretamente, si è affacciato alla ribalta della storia solo alla fine degli anni Novanta. Dopo il Sessantotto, l’alluvione di droghe pesanti e il consumismo hanno sedato opportunamente ogni velleità rivoluzionaria. Persino gli sparuti gruppuscoli di ottusi idealisti che produssero la stagione del terrorismo sono diventati un’icona mediatica e un potente strumento di normalizzazione e disinformazione nelle mani dell’apparato egemonico, qualsiasi cosa credessero davvero di fare. Invece, dal 2001, la risposta è stata diretta e senza sconti: violenza, repressione, annullamento di qualsiasi forma realmente democratica di accesso al potere e all’informazione, guerra sistematica. E gli ex sessantottini ne sono i propalatori e i paladini più decisi e intransigenti.
Dunque, del celebrato Sessantotto rimane ben poco, se non le nostalgie di alcuni eterni Peter Pan. Si salvano un po’ di musica e poco altro. Un’eredità abbastanza inservibile, davanti alle sfide cui dobbiamo far fronte.