Passa il tempo, ma la questione linguistica sarda non cessa di essere attuale. A chi riteneva (o auspicava) che i nuovi media rendessero obsoleto il problema per… estinzione spontanea dell’oggetto (il sardo), tanta pervicacia del medesimo nel sopravvivere e nel perpetuarsi anche nelle forme della modernità deve sembrare un sortilegio. Eppure la tanto arcaica, povera, sclerotica lingua sarda non mostra segni di cedimento. La sua evoluzione, con le evidenti influenze subite, il radicale cambiamento di paradigma (da lingua orale, agro-pastorale, poetica, a lingua scritta, intellettuale, in prosa), è difficile, non scevra di pericoli, ma sta avvenendo sotto i nostri occhi.
Rischia però di mancare all’appello un elemento strutturale decisivo per la sopravvivenza del sardo: quello didattico.
Quando riemerge la vexata quaestio dell’insegnamento e dell’uso del sardo nelle scuole c’è sempre qualche voce “autorevole” che smonta subito qualsiasi discussione banalizzandola e derubricandola a pretesa ideologica dal sapore nostalgico, poco consona alle dinamiche della contemporaneità. Già la normativa sull’uso amministrativo e legislativo del sardo ha incontrato svariati ostacoli: immaginarne un uso a livello scolastico appare veramente arduo.
Gli argomenti usati di solito sono sempre gli stessi: il sardo sarebbe una lingua povera, evolutasi in un contesto intellettualmente sottosviluppato, perciò del tutto inadatta a essere usata come lingua veicolare, né può essere studiato e imparato a scuola come le lingue “di cultura” o “nazionali”. C’è poi il cavillo dell’oralità: il sardo, perpetuatosi nella trasmissione spontanea da una generazione all’altra non sarebbe adatto ad uno studio teorico e grammaticale che da un lato ne pregiudicherebbe la naturale evoluzione, dall’altro mancherebbe di un serio scopo socio-politico.
Come giudicare tali argomenti? Si tratta di corbellerie sesquipedali, non c’è altro da dire.
Non esiste lingua al mondo che non sia stata definita e strutturata oltre che dall’uso quotidiano orale, anche e soprattutto dall’uso amministrativo e scolastico. Le grandi “lingue di cultura” o “nazionali” esistono solo perché sono diventate lingue scritte, lingue dell’amministrazione pubblica e della scuola. Il francese contemporaneo non esisterebbe senza la forza dello stato moderno francese. L’inglese e il castigliano idem, e lo stesso il russo, il giapponese, il cinese mandarino, ecc.
E l’italiano? L’italiano, la più tardiva e meno “naturale” delle grandi lingue europee, esiste praticamente dagli anni Sessanta del XX secolo, imposto come lingua di prima socializzazione soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa (TV), e dalla scuola, oltre che, naturalmente, dall’amministrazione pubblica (l’”antilingua” di calviniana memoria nasce dall’imporsi della sclerotica e retorica lingua burocratica come registro alto dell’italiano). Al momento dell’Unità d’Italia era una lingua di cultura, quasi esclusivamente scritta e conosciuta da una porzione ridottissima degli “italiani” (si vedano in proposito gli studi di T. De Mauro, per es., che calcola la percentuale di italiani italofoni nel 2,5% della popolazione).
Altra storica e ricorrente obiezione, ormai meno utilizzata perché scaduta nel ridicolo, è quella secondo cui l’interferenza del sardo con l’italiano non consentirebbe di imparare bene quest’ultimo. La verità è che studiare e imparare due lingue fa aumentare, non diminuire, la competenza linguistica in entrambe; inoltre, se l’obiezione fosse vera per il sardo, non si vede perché non dovrebbe esserlo, ad esempio, per l’inglese. Sulla questione rimangono illuminanti le parole che ottant’anni fa o giù di lì scriveva A. Gramsci a una sorella, proprio a proposito del rifiuto di quest’ultima di far imparare il sardo ai figli: avrebbero finito per imparare male il sardo, dagli amici, dal contesto informale quotidiano, e anche l’italiano, apprendendolo solo scolasticamente e, in questo caso sì, col rischio delle commistioni inconsapevoli (perciò pasticciate) tra un sistema linguistico e l’altro.
Per tornare ai giorni nostri, una recente e piuttosto esaustiva ricerca socio-linguistica commissionata dalla regione sarda (recuperabile nel portale web della medesima) mostra chiaramente quanto il problema del bilinguismo imperfetto sia ancora serio. Alcuni linguisti (per es. Roberto Bolognesi) non esitano a collegare tale questione con i dati, sempre allarmanti, sulla dispersione scolastica. Del resto, già trent’anni fa M. Pira insisteva sulla necessità dell’insegnamento contrastivo di sardo e italiano nella scuola, proprio per fornire a tutti gli strumenti di comunicazione più adeguati ad inserirsi alla pari nel contesto sociale, produttivo e culturale contemporaneo.
Nessun idioma umano può evolversi dallo stadio dell’oralità quotidiana e pragmatica se manca la “seconda gamba” della competenza linguistica, che è quella fornita appunto dallo studio. Né vale, nel caso del sardo, l’obiezione che non esista un sardo insegnabile perché di sardi ce ne sono tanti e diversi. Basterebbe che ognuno studiasse il proprio. La soluzione sarebbe nella formazione e nella selezione del corpo docente, niente a che fare con difficoltà intrinseche alla lingua.
Quando riemerge la vexata quaestio dell’insegnamento e dell’uso del sardo nelle scuole c’è sempre qualche voce “autorevole” che smonta subito qualsiasi discussione banalizzandola e derubricandola a pretesa ideologica dal sapore nostalgico, poco consona alle dinamiche della contemporaneità. Già la normativa sull’uso amministrativo e legislativo del sardo ha incontrato svariati ostacoli: immaginarne un uso a livello scolastico appare veramente arduo.
Gli argomenti usati di solito sono sempre gli stessi: il sardo sarebbe una lingua povera, evolutasi in un contesto intellettualmente sottosviluppato, perciò del tutto inadatta a essere usata come lingua veicolare, né può essere studiato e imparato a scuola come le lingue “di cultura” o “nazionali”. C’è poi il cavillo dell’oralità: il sardo, perpetuatosi nella trasmissione spontanea da una generazione all’altra non sarebbe adatto ad uno studio teorico e grammaticale che da un lato ne pregiudicherebbe la naturale evoluzione, dall’altro mancherebbe di un serio scopo socio-politico.
Come giudicare tali argomenti? Si tratta di corbellerie sesquipedali, non c’è altro da dire.
Non esiste lingua al mondo che non sia stata definita e strutturata oltre che dall’uso quotidiano orale, anche e soprattutto dall’uso amministrativo e scolastico. Le grandi “lingue di cultura” o “nazionali” esistono solo perché sono diventate lingue scritte, lingue dell’amministrazione pubblica e della scuola. Il francese contemporaneo non esisterebbe senza la forza dello stato moderno francese. L’inglese e il castigliano idem, e lo stesso il russo, il giapponese, il cinese mandarino, ecc.
E l’italiano? L’italiano, la più tardiva e meno “naturale” delle grandi lingue europee, esiste praticamente dagli anni Sessanta del XX secolo, imposto come lingua di prima socializzazione soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa (TV), e dalla scuola, oltre che, naturalmente, dall’amministrazione pubblica (l’”antilingua” di calviniana memoria nasce dall’imporsi della sclerotica e retorica lingua burocratica come registro alto dell’italiano). Al momento dell’Unità d’Italia era una lingua di cultura, quasi esclusivamente scritta e conosciuta da una porzione ridottissima degli “italiani” (si vedano in proposito gli studi di T. De Mauro, per es., che calcola la percentuale di italiani italofoni nel 2,5% della popolazione).
Altra storica e ricorrente obiezione, ormai meno utilizzata perché scaduta nel ridicolo, è quella secondo cui l’interferenza del sardo con l’italiano non consentirebbe di imparare bene quest’ultimo. La verità è che studiare e imparare due lingue fa aumentare, non diminuire, la competenza linguistica in entrambe; inoltre, se l’obiezione fosse vera per il sardo, non si vede perché non dovrebbe esserlo, ad esempio, per l’inglese. Sulla questione rimangono illuminanti le parole che ottant’anni fa o giù di lì scriveva A. Gramsci a una sorella, proprio a proposito del rifiuto di quest’ultima di far imparare il sardo ai figli: avrebbero finito per imparare male il sardo, dagli amici, dal contesto informale quotidiano, e anche l’italiano, apprendendolo solo scolasticamente e, in questo caso sì, col rischio delle commistioni inconsapevoli (perciò pasticciate) tra un sistema linguistico e l’altro.
Per tornare ai giorni nostri, una recente e piuttosto esaustiva ricerca socio-linguistica commissionata dalla regione sarda (recuperabile nel portale web della medesima) mostra chiaramente quanto il problema del bilinguismo imperfetto sia ancora serio. Alcuni linguisti (per es. Roberto Bolognesi) non esitano a collegare tale questione con i dati, sempre allarmanti, sulla dispersione scolastica. Del resto, già trent’anni fa M. Pira insisteva sulla necessità dell’insegnamento contrastivo di sardo e italiano nella scuola, proprio per fornire a tutti gli strumenti di comunicazione più adeguati ad inserirsi alla pari nel contesto sociale, produttivo e culturale contemporaneo.
Nessun idioma umano può evolversi dallo stadio dell’oralità quotidiana e pragmatica se manca la “seconda gamba” della competenza linguistica, che è quella fornita appunto dallo studio. Né vale, nel caso del sardo, l’obiezione che non esista un sardo insegnabile perché di sardi ce ne sono tanti e diversi. Basterebbe che ognuno studiasse il proprio. La soluzione sarebbe nella formazione e nella selezione del corpo docente, niente a che fare con difficoltà intrinseche alla lingua.
In realtà ciò che si oppone all’insegnamento del sardo nella scuola sono da una parte pigrizia e menefreghismo (delle istituzioni, della scuola), dall’altra interessi consolidati (di chi ha il timore, per non dire il terrore, che cresca il livello medio di consapevolezza dei sardi). Spesso le due cause si legano insieme, a tutto svantaggio della collettività. Niente di condivisibile o anche solo vagamente serio, dunque.
In definitiva, le conoscenze acquisite e ragioni pratiche pressanti non consentono di ritardare oltre la soluzione positiva del problema, con buona pace dei sardofobi di ogni specie.
In definitiva, le conoscenze acquisite e ragioni pratiche pressanti non consentono di ritardare oltre la soluzione positiva del problema, con buona pace dei sardofobi di ogni specie.