Il sessantesimo anniversario della promulgazione dello Statuto della regione sarda cade in un momento significativo, che contribuisce a gettare un barlume di luce chiarificatrice sulla vicenda storica della Sardegna contemporanea.
In concomitanza con la ricorrenza, grava sull’attuale giunta regionale la probabilità della crisi decisiva. Una legislatura regionale cominciata sotto il segno del rinnovamento, dell’uscita della Sardegna dallo stato di minorità istituzionale e politica, si avvia alla conclusione tra lo scontento dei cittadini e la malcelata soddisfazione degli avversari (consorterie partitiche, lobbies speculatrici, corporazioni varie, ecc.).
La radice del fallimento di Renato Soru e di chi lo ha seguito fin qui non si trova però nelle misure intraprese dalla sua giunta verso un ammodernamento delle istituzioni e del rapporto tra i sardi e le scelte che li riguardano. Su tali basi molta parte della popolazione era disposta a concedere credito a chi ha governato la Sardegna negli ultimi anni, anche soprassedendo su evidenti errori tattici e qualche scelta ottusa e certamente perfettibile. Fosse stato solo per questo, il consenso della giunta Soru non sarebbe crollato tanto inesorabilmente e anzi, in occasione delle prossime elezioni, si sarebbe potuto far valere il grande sforzo di apertura e pulizia fatto.
La radice del fallimento, in realtà, sta dove nessuno ha ancora avuto il coraggio di guardare: non Soru e i suoi, per convenienza, per non doversi rimangiare alcune parole d’ordine su cui hanno fondato la propria credibilità politica; né i loro avversari, ai quali fa comodo ritornare indietro sul cammino intrapreso, senza sondare le vere cause che ne ostacolano la prosecuzione. La radice del fallimento sta nell’irrisolto compromesso che lega la Sardegna allo stato italiano in posizione di estrema debolezza e senza possibilità concreta di esercitare una sia pur minima forma di autodeterminazione.
L’equivoco nasce proprio dalla forma, prima ancora che dalla sostanza, dell’autonomia regionale. L’illusione di fondare nuovi rapporti tra stato centrale e Sardegna su una legge, sia pure di rango costituzionale, vincolata all’insindacabilità dell’ordinamento italiano come detentore della sovranità e dell’unico, vero interesse nazionale, si è rivelata del tutto fallimentare. Lo sforzo di attribuire sostanza a tale forma depotenziata e perennemente revocabile (almeno nei fatti) di “autonomia” ha condotto la nuova classe dirigente sarda, emersa dalle ultime elezioni regionali, a tentare per un po’ una prova di forza verso lo stato, poi a sperare nel compromesso col nuovo governo (che si presumeva più amichevole), scontentando così prima alcuni, poi buona parte dei sardi.
Il problema è che molte scelte fatte dal governo regionale avrebbero senso se dotate del crisma della sovranità, ma ne hanno molto meno se inserite in un quadro di rapporti giuridici e di mera forza che trova la Sardegna già in partenza, sulla base della medesima normativa che ne regola l’autonomia, in posizione di inferiorità. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. La conseguenza sarà di riconsegnare la Sardegna nelle mani di chi, esplicitamente, si presenta come garante degli interessi forti che vedono l’Isola come oggetto delle proprie speculazioni. Si ritornerà a quello status quo che da sessant’anni favorisce la sopravvivenza di una casta locale di proconsoli e prestanome, assicurata nella perpetuazione dei propri privilegi da una gestione delle risorse e delle cariche di tipo patrimoniale.
Questo non è un effetto casuale o contingente di una politica sbagliata. Anzi, l’azione della giunta Soru ha il merito storico di aver posto sul terreno del confronto politico-istituzionale alcune questioni che, da sempre latenti, nessuna classe politica sarda aveva mai fatto proprie in modo così aperto (servitù militari, questione finanziaria e impositiva, apertura nel regime dei trasporti, salvaguardia del patrimonio ambientale e culturale, ecc.). Tuttavia, è proprio la portata di tali questioni e la dimensione delle aspettative suscitate ad aver fatto emergere il conflitto insanabile tra la Sardegna, che non può più attendere il beneplacito esterno per compiere scelte decisive per il suo futuro, e gli interessi del ceto dominante italiano e dei suoi portavoce politici, rivestito dalla sacralità dell’interesse nazionale e garantito dalle forme dell’ordinamento giuridico statale. Se non si prenderà atto dell’impossibilità di risolvere tale conflitto nei termini dell’”autonomia” regionale, non si farà alcun passo avanti.
L’unica via rimasta è quella che porta a completare, in tutto e per tutto, la “rivolta dell’oggetto”, ossia riempire concretamente l’involucro ancora vuoto dell’aspirazione dei sardi all’autodeterminazione e al libero concorso alla costruzione della propria storia.