Nel settantesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci, numerosi sono stati i convegni, le conferenze e in generale le manifestazioni rievocative che a vario titolo gli sono state dedicate, in Sardegna, in Italia e nel mondo intero. La risonanza dei vari eventi, alcuni di portata decisamente mondiale, è stata minima sui mass media italici, molto maggiore all’estero, dove Gramsci è ormai definitivamente considerato come uno dei massimi pensatori del “secolo breve”, il Novecento.
Cosa aggiungere al tanto che è stato detto? Be’, in una sede come questa non è incoerente tentare di inquadrare la figura del grande ghilarzese nel suo percorso formativo sardo, quello meno indagato e troppo spesso rimosso, quasi che la formazione intellettuale e l’esistenza stessa di Gramsci fossero iniziate nel momento in cui egli mise piede sul continente.
Il perché di tale rimozione andrebbe a sua volta analizzato. Qui mi limito a segnalare che una ragione possibile può trovarsi nel preteso allontanamento ideale, oltre che fisico, di Gramsci dalle sue radici sarde. Un rinnegamento, insomma, maturato in nome di valori e aspirazioni più alti. A seguire la parabola esistenziale di Gramsci e le sue testimonianze dirette, invece, si può solo argomentare il suo anelito di superamento della realtà provinciale in cui l’orizzonte della famiglia e del villaggio rischiava di chiuderlo. Superamento, però, non rifiuto della propria matrice culturale. In questo senso la sua sardità profonda (o “sarditudine”, potrebbe dire qualcuno) emerge continuamente in mille modi, da quelli consapevoli a quelli del tutto inconsci e spontanei.
Proviamo dunque a ricapitolare il percorso di crescita e di formazione di Gramsci nel suo periodo sardo, in relazione al contesto politico e culturale in cui era pienamente e consapevolmente immerso.
Antonio Gramsci nacque nel 1891. Lascerà la Sardegna solo nel 1911, a quasi ventun anni d’età. Tutta l’infanzia e la giovinezza di Gramsci si svolsero dunque sull’isola natale.
Che posto è la Sardegna in cui nasce e cresce Antonio Gramsci?
È una terra povera e sottopopolata, dicono le ricostruzioni storiche, e questo è senz’altro vero. Ma è anche una terra in cui la modernità suscita pulsioni intellettuali del tutto nuove, scissioni culturali violente, dinamiche produttive e sociali drammatiche.
Da punto di vista politico, la Sardegna a cavallo tra i secolo XIX e XX è una porzione minima e non solo geograficamente marginale di un’entità statuale più grande, il giovane Regno d’Italia. Solo trent’anni prima che Gramsci vedesse la luce, quello stato si chiamava ancora Regno di Sardegna. Dal 1861, dopo un millennio, il territorio dell’Isola non coincideva più, nemmeno formalmente o parzialmente, con alcuna entità statuale.
Gramsci, in quel 1891, nacque dunque in una terra ai margini della civiltà europea contemporanea, una terra senza alcuna voce in capitolo persino nelle decisioni che la riguardavano direttamente.
Solo tre anni prima della sua nascita, nel 1887, il governo italiano aveva denunciato alcuni trattati commerciali con la Francia. Era un periodo di protezionismo, di contese economiche tra grandi e medie potenze europee sullo scacchiere del mondo. Alla concorrenza nelle avventure coloniali, con le quali l’Europa consolidava la propria supremazia sugli altri continenti, corrispondevano rivalità più locali, tentativi di egemonie produttive e commerciali a corto e medio raggio. Tu fai pagare pedaggi salati ai miei tessuti, io tasso i tuoi vini, e così via. In Italia si preferiva proteggere gli interessi industriali del nord a discapito dell’economia del resto del Paese. Negli anni Ottanta del XIX secolo la Sardegna aveva visto crescere le sue esportazioni nel settore agroalimentare. La Francia era uno dei mercati principali delle merci sarde. Il governo italiano straccia i trattati con la Francia, ed ecco che la Sardegna, di punto in bianco, perde uno sbocco vitale per i propri prodotti. Ne conseguirono disoccupazione e abbandono delle campagne. Unico sbocco: la miniera. Oppure mettersi fuori legge. I fuorilegge spopoleranno nei successivi anni ’90. La situazione diventò presto tanto grave che il governo Crispi decise di affidare un’inchiesta sulla situazione sarda ad un deputato isolano, Francesco Pais-Serra. Era il 1894. Due anni dopo, nel ’96, Pais-Serra presentò la sua relazione. Disegnava un quadro preciso e circostanziato delle condizioni dell’Isola: povertà, analfabetismo, corruttela politica… Su quest’ultimo punto Pais-Serra scrive pagine lucidissime: la sola politica che sia presente in Sardegna è quella delle clientele e della spartizione tra centri di potere, per lo più forestieri. Cento anni dopo, per molti aspetti, quelle pagine risulteranno ancora drammaticamente attuali. Ora, non so.
Il padre di Gramsci, come si sa, ebbe disavventure giudiziarie che condizionarono pesantemente la vita familiare. La situazione descritta dal Pais-Serra ci fornisce indicazioni preziose sulla vicenda. Gramsci senior aveva fatto lo sbaglio di appoggiare politicamente l’avversario principale del proconsole sardo di quegli anni, che si chiamava Francesco Cocco-Ortu. Cocco-Ortu di lì a poco sarebbe diventato ministro in uno dei governi Giolitti. Il candidato appoggiato dal padre di Gramsci perse le elezioni e i suoi sostenitori ne pagarono le conseguenze. Probabilmente a questa vicenda si collegano le accuse e poi la condanna subite.
La relazione di Pais-Serra era feconda di spunti interessanti, che potevano suscitare decisioni congrue da parte delle autorità preposte. Ma la Sardegna occupava un posto molto periferico, tra le preoccupazioni del governo. Quelli erano gli anni dell’impresa coloniale in Africa (semi-fallimentare, come si sa) e di periodici sommovimenti popolari, non solo nelle zone rurali del Mezzogiorno italiano.
Un anno dopo la relazione del Pais-Serra, nel 1897, un antropologo (allora si chiamavano così) di scuola lombrosiana (misurazione di crani, espressioni del viso: la fisiognomica, insomma), tale Alfredo Niceforo, siciliano, pubblica un saggio dal titolo La delinquenza in Sardegna. Tesi cardine del testo è la seguente: il sardo è congenitamente delinquente.
Gramsci aveva sei anni, quando il libro fu dato alle stampe. Essendo un bimbo molto intelligente, si sarà accorto delle polemiche che le asserzioni di Niceforo stavano scatenando. Ma, nonostante le proteste di alcuni intellettuali sardi, in quel periodo esse venivano prese piuttosto sul serio.
Due anni dopo, nel 1899, la Sardegna si preparò ad accogliere i regnanti, Umberto I e la regina Margherita, in occasione del centesimo anniversario del ritiro in Sardegna di Casa Savoia. Nel 1799 Napoleone aveva invaso il Piemonte e i Savoia già in quell’occasione avevano manifestato una certa propensione alla fuga. Rifugiarsi sull’Isola cui dovevano pur sempre il titolo monarchico era una soluzione non gradita ma imposta dalle circostanze. Un secolo più tardi, dunque, la Sardegna li accoglieva di nuovo, non si sa con quanto amore. La situazione non era affatto pacifica e intere porzioni dell’Isola erano pressoché fuori del controllo delle autorità costituite. Il banditismo, sia quello al soldo dei potentati locali sia quello di matrice popolare (cui andava il sostegno diffuso delle masse), aveva mano libera.
Poche settimane dopo la visita dei reali, si pensò bene di allestire una bella spedizione punitiva in Sardegna. Si radunarono i reduci dalle campagne d’Africa e li si spedì d’urgenza in quella che per molti era solo un’altra colonia oltremarina. La “nostra Patagonia” ebbe a definire la Sardegna uno dei protagonisti della vicenda (Giulio Bechi, lo scrittore toscano autore del romanzo Caccia Grossa, allora ufficiale dell’esercito, di stanza tra Nuoro e Dorgali). Chi era soggiogato dalla sete d’avventure esotiche, non aveva che da attraversare il mar Tirreno. Teniamo conto che solo un anno prima, nel 1898, le truppe italiane al comando del generale Bava-Beccaris (decorato per l’eroica impresa dallo stesso re Umberto), non avevano esitato a cannoneggiare la folla inerme, non nelle campagne lucane o siciliane, ma a Milano. Figuriamoci quanti scrupoli potevano avere di fronte ai sardi, una genia ben più straniera e incomprensibile per lingua, usi e costumi di qualsiasi altra popolazione del regno.
Così la Sardegna – specie le zone interne, il circondario di Nuoro – venne messa sotto assedio, occupata militarmente e sottoposta a rastrellamenti e requisizioni di beni. Non riuscendo ad intercettare i banditi, i militari pensarono bene di arrestarne le famiglie. Interi villaggi svuotati. Donne, vecchi e bambini trascinati in catene sulla pubblica piazza e sottoposti a fermi, perquisizioni e interrogatori. Furono diverse centinaia le persone coinvolte. L’esito giudiziario dei processi celebrati di lì a qualche tempo fu un fallimento: pochissime condanne definitive e spesso per reati minori. I banditi, i pezzi grossi, l’avevano scampata. Qualcuno di loro verrà infine catturato e affidato alle patri galere, qualcuno finirà ucciso a tradimento, altri moriranno di vecchiaia, liberi. Il problema dell’ordine pubblico in Sardegna non sarà comunque risolto.
Intanto, nelle città sarde, ossia Cagliari e Sassari, la vita assumeva i contorni dell’eleganza e della bèlle epoque. La Sardegna viveva un momento di profonda crisi culturale. Da una parte la tipica resistenzialità dei sardi li rendeva refrattari a costumanze diverse da quelle tradizionali. La prima lingua parlata sull’Isola era di gran lunga il sardo, in tutte le sue varianti. La cultura, la lingua, le leggi che arrivavano da oltremare erano viste con sospetto e per lo più rifiutate. Ma la classe dominante sarda mostrava una ferrea volontà di omologazione ai modelli del continente. Chi poteva studiare ed aspirare ad una carriera impiegatizia o nelle forze armate o magari al successo intellettuale, si vedeva costretto, magari non del tutto suo malgrado, a lasciare da una parte usi e costumi ereditati dalle generazioni precedenti per abbracciare una lingua e un modo di concepire il modo di vivere in buona misura di matrice esogena. Era difficile tradurre la vita e la storia di un popolo in una lingua diversa. Qualcuno ci provava (Grazia Deledda, Sebastiano Satta, Francesco Ciusa, per citare tre sardi illustri di quel periodo), con esiti a volte discutibili. Non esisteva un passaggio, una osmosi, tra cultura popolare e strati sociali superiori, tra le masse e la classe dominante. Se uscivi dal clan o dal villaggio finivi in un mondo alieno, dal quale era difficile ritornare indietro. Se cercavi di fare da tramite tra i due mondi, finiva che risultavi straniero ad entrambi.
I mass-media dell’epoca, i grandi giornali, i periodici, che pure fiorivano nelle città, per lo più erano direttamente o indirettamente controllati da tali centri di potere. Non c’era alcuna veicolazione della cultura locale, della tradizione letteraria o musicale autoctona, attraverso tali mezzi di comunicazione. Tutto ciò che sapeva di tradizionale e si esprimeva in sardo era folklore. Solo i glottologi tedeschi scoprivano in quel periodo la Sardegna da un altro punto di vista: quello del patrimonio linguistico romanzo più vicino al latino volgare che si conoscesse nell’intera Europa.
Una scissione culturale, dunque. Gramsci era cresciuto a Ghilarza, poi aveva studiato a Santu Lussurgiu, prima di trasferirsi a Cagliari. Era immerso in questa problematica condizione. Ghilarza era ed è un grosso villaggio al centro della Sardegna. Si trova in un crocevia che da secoli costituisce il confine tra Zone Interne e Campidani, nonché tra Sardegna meridionale e Sardegna settentrionale. Vicina alla ferrovia che va da Cagliari a Sassari ed alla strada carrozzabile più importante dell’Isola, la Carlo Felice. Santu Lussurgiu è da sempre un grasso borgo pastorale ed artigiano, quasi una piccola città. A Ghilarza e Santu Lussurgiu, com’è ancora oggi, doveva respirarsi sia l’atmosfera tradizionale da borgo agro-pastorale, sia il vento della modernità, dei contatti, delle scuole, dei giornali, di un mondo più grande e tutto da scoprire.
Il contesto socio-economico in cui tale scissione culturale aveva luogo era fortemente problematico. Il sistema produttivo imperante era di natura prettamente coloniale. Le risorse dell’Isola, non disprezzabili, erano prelevate a basso costo, grazie alle favorevoli concessioni governative ed all’abbondanza di mano d’opera senza garanzie, per essere lavorate altrove. Chi gestiva il sistema produttivo e commerciale erano imprese e società italiane e straniere senza alcun radicamento sul territorio, a parte l’attività di spoliazione.
Nel 1904, quando Antonio aveva 13 anni, nel mese di settembre, una protesta dei minatori di Buggerru sfociò in una repressione manu militari. Bilancio: alcuni morti e molti feriti. Da questo episodio scaturì il primo sciopero generale della storia italiana. In Sardegna il mondo del lavoro era ben poco organizzato e tutto il comparto agro-pastorale era alquanto distante dai problemi e dalla crescente autocoscienza del mondo operaio. Lo sciopero non ebbe grande risonanza sull’Isola. Ma i problemi restavano e il malumore era diffuso. Circolavano voci di rivolta, di ricacciata in mare dei continentali, come poco più di cento anni prima erano stati cacciati i funzionari piemontesi.
Nel 1906, in maggio, esplose dunque la protesta popolare. I prezzi di molti beni, specie di quelli di prima necessità, erano aumentati vertiginosamente, mentre le retribuzioni dei lavoratori, a fronte di orari di lavoro spesso di quindici ore, rimanevano basse. Molte famiglie non riuscivano più nemmeno a comprare il pane. Specie a Cagliari si verificarono gravi disordini, che poi si estesero a tutta la Sardegna. Gramsci, che studiava al ginnasio, a Santu Lussurgiu, era testimone di tutto ciò. Come tanti altri ripeteva in continuazione: “a mare sos continentales”, e coltivava sogni indipendentisti. La sollevazione popolare anche in questo caso fu repressa dalle forze armate, con molti morti, moltissimi feriti e processi oceanici ai presunti responsabili (dei moti, non delle uccisioni).
Nel 1908, Gramsci ottenne la licenza ginnasiale e si trasferì a Cagliari, per iscriversi al liceo. A Cagliari, Antonio viveva col fratello maggiore, Gennaro. Questi aveva fatto esperienza di fabbrica a Torino, dove aveva maturato simpatie socialiste. Fu grazie a lui che Antonio cominciò a fare letture politiche. La situazione economica e sociale della sua terra doveva cominciare ad apparirgli più leggibile, grazie a tali nuovi strumenti critici. I suoi studi, tuttavia, risentivano molto più delle precarie condizioni alimentari e di salute, che delle letture sovversive.
Era la prima volta che Gramsci usciva dalla realtà del villaggio. Fino a quel momento era stato il villaggio a costituire il suo orizzonte di senso, il suo sistema di riferimento, nella lingua, nelle forme della socializzazione, nelle aspettative. In una lettera al padre del gennaio 1909 sono ancora ben evidenti le tracce sintattiche e lessicali del sardo di famiglia. E in occasione di qualche sporadica rimpatriata con compaesani, a base di pane e formaggio, lui stesso non disdegnava di accompagnare all’organetto diatonico canti e balli tradizionali, improvvisati lì per lì. Questo raccontano i testimoni.
Ma la città, benché piccola e provinciale, offriva possibilità diverse. E il mare evocava pur sempre terre lontane, ma raggiungibili, e traffici e novità. In città c’era il teatro, c’erano gli studenti universitari, c’era una vita intellettuale di natura e dimensioni diverse da quelle tipiche del piccolo centro dell’interno.
Nonostante un inizio faticoso e la perenne miseria, l’esperienza liceale a Cagliari fu gratificante, per Gramsci. Al liceo la cattedra vacante di italiano venne affidata al direttore del più diffuso giornale quotidiano dell’Isola, l’Unione Sarda. Dopo qualche tempo, Gramsci ottenne di lavorarci. La cosa non risolverà i suoi problemi economici. Leggeva Salvemini, il grande storico, e si appassionava ai problemi sociali e culturali. Sognava l’indipendenza nazionale della Sardegna e frequentava il loggione dei teatri.
Restava il problema di cosa fare dopo il liceo. Iscriversi all’Università era proibitivo per le finanze familiari. Ma, grazie ai suoi ottimi voti in tutte le materie, comprese quelle matematiche e scientifiche, nel 1911 – anno dell’entrata in guerra dell’Italia contro la Turchia per il possesso della Libia – Antonio ottenne l’ammissione ad una borsa di studio. Non a Cagliari o Sassari, però, bensì a Torino. Era la borsa di studio messa in palio dal Collegio Carlo Alberto come segno di gratitudine di Casa Savoia per la fedeltà dei sardi, che nel 1793 avevano ricacciato in mare il tentativo di occupazione francese (da cui però poi sarebbe nato il moto rivoluzionario sardo, con la cacciata dei piemontesi dall’Isola) e nel 1799, come abbiamo visto, avevano accolto i Savoia medesimi, transfughi dall’invasione napoleonica. Antonio partì così per Torino nell’ottobre di quell’anno, a sostenere gli esami di ammissione all’università, cui l’erogazione dell’assegno era vincolata. Insieme a lui un altro studente proveniente dalla Sardegna concorreva per la medesima borsa di studio, un giovane occhialuto e taciturno che aveva fatto il liceo a Sassari: Palmiro Togliatti.
A Torino, Gramsci rimase a lungo. A prezzo di gravi sacrifici e di durissimi sforzi psico-fisici, in quell’autunno finalmente aveva ricevuto il lasciapassare per il mondo “grande e terribile”, da cui non sarebbe più tornato.