Sempre attuale il discorso identitario. Ognuno lo tira dalla propria parte sul tavolo da gioco dell’elaborazione politica e intellettuale, spesso mischiando carte di mazzi diversi. Anche l’identità è ormai un feticcio, un attrezzo ideologico buono per tutte le operazioni.
In realtà non esiste alcun problema identitario, nei sardi. Il senso di appartenenza a una comunità specifica, ad un popolo, o nazione o etnia, chiamiamola come vogliamo, è talmente spontaneo e diffuso che è una delle prime caratteristiche notate dai non sardi. È un nostro tratto distintivo. A che scopo, dunque, metterlo in discussione di continuo con la scusa di analizzarlo, attualizzarlo, e via dicendo? Che senso può avere? Io credo, solo quello di confondere le coscienze. Nella maggior parte dei casi, chi solleva la questione identitaria lo fa per negarne la radice concreta, antropologica, storicamente accertata. Mille distinguo, innumerevoli proposte di revisione del nostro comune sentire in nome di che cosa, se non di un rinnegamento di noi stessi?
Perché? Be’, non si può negare che la questione identitaria sia piuttosto ingombrante, in Sardegna. Non le si può sfuggire, si sente anche quando non la si evoca. Perciò è necessario farla emergere ma solo entro confini predisposti ad arte per depotenziarne i significati. È la paura di cosa significhi ammettere una comune appartenenza identitaria a suggerirne la problematizzazione. Molti hanno da perdere, dalla definitiva accettazione della verità storica.
Qui sta una lacuna profonda del mondo intellettuale e politico sardo di sempre. Propensi a garantirsi un avvenire prospero e confortevole, la maggior parte degli intellettuali sardi ha a lungo privilegiato l’adesione cortigiana agli schemi culturali imposti dal sistema di potere vigente. Dal mondo della burocrazia a quello dei mezzi di informazione, dall’università alla politica, ben pochi hanno provato a farsi carico fino in fondo dell’emersione storica della soggettività collettiva dei sardi. Meglio provincia deresponsabilizzata in cui condurre i propri traffici e sistemare figli e nipoti, e percorrere la propria carriera al riparo dal confronto vero con forze diverse, che assumersi la responsabilità di dare una veste esplicita, nelle forme dell’elaborazione teorica e politica, al gravoso fardello identitario. In tale contesto diventa strumentale alla conservazione dello staus quo estrarre dal mondo reale quest’idea così romantica e astratta dell’identità e farne un feticcio. Discuterne, certo, magari sostenere l’intenzione di salvaguardarla (a condizione che si evolva, che si integri, ecc.), oppure di “valorizzarla” (attenzione a questa locuzione così di moda: valorizzare; significa piegare all’interesse particolare e immediato qualcosa di prezioso per tutti, che bisognerebbe lasciare alla propria evoluzione spontanea).
Insomma, l’identità e il presunto problema da essa costituito sono uno strumento potente in mano a chi vuole negare la storia e impadronirsi del futuro dei sardi e della Sardegna.
L’identità è un patrimonio di storia, cultura, conoscenze, modi di vivere, una weltanschauung (concezione del mondo). Non è un problema da risolvere. Basta lasciarla nella sua sfera naturale di significato, senza violentarla o piegarla a fini poco limpidi. E lasciarle raggiungere il suo sbocco storico, se tale è il nostro destino, facendoci carico delle responsabilità che ne discendono.