La crisi c’è, si vede, ma nessuno la affronta

Distratti dalla futile e desolante cronaca italiana, tende a sfuggire la portata del momento storico che stiamo vivendo. La crisi non è contingente, i suoi connotati non sono quelli dell’emergenza continuamente annunciata e mai risolta. Non abbiamo ancora visto tutto.

L’incipiente crisi bancaria – tenuta sotto controllo mediaticamente ma non si sa se anche nei fatti – è solo uno degli aspetti di una crisi più generale sempre meno gestibile con gli strumenti consueti della politica. Le sollevazioni popolari in mezza Europa, in Israele e in altre aree del pianeta, benché abbiano origini contingenti diverse, segnalano quello che è evidente da tempo: la complessità e la durezza di questa fase di transizione storica.

Il problema del contesto italiano, Sardegna compresa, è che la classe dirigente italiana, ossia i ceti abbienti e le loro rappresentanze politiche, culturali e mediatiche, è la più scalcagnata, gretta e cialtrona d’Europa. O comunque se la gioca in fondo alla classifica.

Lo diceva già Gramsci cent’anni fa, lo diceva Pasolini cinquant’anni fa e rimane vero oggi. È un problema congenito del pasticcio storico chiamato Italia e non se ne uscirà mai, finché esisterà lo stato italiano così com’è.

La politica espressa dalla classe dirigente italiana è coerente con tale base di riferimento e con la sua storia. In quest’epoca di decadenza e chiusura oligarchica e autoritaria, in un momento di possibile scontro sociale, niente di meglio che mettere alla guida nominale del Paese la banda fascista e conservatrice capitanata da Giorgia Meloni.

È chiaro che si tratta di un governo raccogliticcio, incompetente e fin troppo esplicitamente di destra. Ma non bisogna cadere nelle trappole mediatiche a cui ricorre, con la sponsorizzazione dei ceti ricchi e privilegiati (che possiedono i mass media). Le periodiche e reiterate dichiarazioni ostili ai diritti delle donne e della comunità LGBTQ+, le scelte xenofobe e razziste, le trovate di stampo vacuamente nazionalista sono gravi e certamente da contrastare, ma suonano perlopiù come diversivi. Si sollecita l’opinione pubblica su temi sì importanti, ma trattati secondo le modalità delle discussioni tra tifoserie calcistiche. I media veicolano e amplificano questo pseudo-dibattito pubblico.

Intanto si fanno scelte – o non-scelte – importanti sui dossier strategici e si asseconda l’andazzo che ha ormai preso anche nel “civile Occidente”. Come vediamo in Francia.

Se la popolazione italiana, soprattutto nei suoi gruppi sociali medi, vagamente istruiti, non fosse così ignorante, distratta, stordita e troppo occupata a sopravvivere come è, credo che anche in Italia saremmo vicini a qualche forma di sollevazione popolare. Esito che comunque non può essere escluso per i prossimi mesi e anni, quando i vari nodi verranno, in un modo o nell’altro, al pettine. E allora sarà chiaro perché l’agglomerato di interessi e di potere che domina il Paese ha preferito mettere al governo i (post?) fascisti.

L’Occidente, dicevo. Benché si propali a pieno ritmo la narrazione sui “valori dell’Occidente”, contrapposti a quelli, ovviamente contrari e per loro natura pessimi, della Cina, della Russia e di altre entità politiche al momento considerate ostili, proprio su tali valori è in corso un conflitto interno durissimo.

La stessa Unione Europea, nel suo livello esecutivo, decisionale, è un’entità strumentale a disposizione dei grandi centri finanziari e dei potentati economici privati. Come dimostra la criminale – in senso sociale – politica dei tassi di interesse esercitata da Christine Lagarde, presidente della BCE. E le stesse misure di cosiddetto sostegno e sviluppo, compreso il tanto celebrato PNRR, non sono che meccanismi destinati a privatizzare ulteriormente ogni aspetto potenzialmente monetizzabile dell’esistenza e ad assoggettare intere popolazioni e interi territori a una forma di rapporti di produzione, sociali e politici di stampo estrattivo, padronale, autoritario e anti-popolare.

Si inviano armi in Ucraina in nome della pace, ma non si fa nulla per preparare davvero la pace. Non si pone nemmeno il tema principale: la ritirata della Russia dal territorio ucraino. Come mai? Si rifiuta il dossier cinese in proposito, ma non se ne presenta uno alternativo. Si preferisce prolungare il conflitto, sulla pelle della popolazione ucraina, aspettando solo il momento propizio per imporre i propri piani di ricostruzione.

Ma l’invio di armi, che pure non è un’aberrazione politica, è quasi un altro diversivo esso stesso. Il problema non è quello. Il problema è l’aumento sconsiderato e generalizzato della spesa militare. È un’altra faccenda ed è una decisione dal segno molto chiaro: si prepara un’epoca di guerra. Nominalmente in nome di quella democrazia che intanto si fa di tutto per comprimere e, dove possibile, ridurre al minimo nello stesso Occidente.

In questo scenario, che mi sembra chiarissimo, che ruolo ha e che sorte attende la Sardegna?

Come detto più volte, siamo in una situazione allarmante. Sia per quanto riguarda tutti gli indicatori socio-economici, demografici e culturali, sia sul piano politico. Essere nei guai è un conto. Essere nei guai senza alcuna risorsa per uscirne è un altro. Le risorse per uscirne dovrebbero essere prima di tutto di indole politica e poi chiaramente anche di natura sociale e materiale.

A livello politico penso non ci sia nulla di meglio per capire la gravità del momento che dare la parola ai protagonisti medesimi, almeno nell’ambito strettamente istituzionale.

Da un lato, l’intervista rilasciata a SardiniaPost dal nuovo segretario regionale del PD, Piero Comandini, dall’altro le dichiarazioni del presidente della RAS Solinas in Consiglio regionale, come risposta alla mozione di sfiducia contro di lui, respinta a maggioranza dal Consiglio stesso.

Ora, che la giunta Solinas e la maggioranza che la sorregge siano state una vera disgrazia che si aggiunge alle altre disgrazie, penso non ci piova. A meno di non esserne dei beneficiari diretti, nessuna persona, in buona fede, può negare il disastro che questa legislatura ci sta lasciando in eredità. Con la minaccia di reiterarlo, per altro.

Ci si aspetterebbe, non dico nel paradiso della democrazia realizzata (che non esiste in questa dimensione spazio-temporale) ma almeno in una democrazia ordinaria, normale, di stampo – appunto – occidentale, che l’opposizione avesse qualche idea, sapesse cosa dire, detenesse una posizione, un orizzonte, dei propositi da contrapporre alla maggioranza uscente. Invece in Sardegna, margine subalterno e coloniale della baracca fatiscente italiana, anche le opposizioni sono della stessa pasta avariata delle maggioranze. Lo dimostra in modo inequivocabile l’intervista di Piero Comandini, segretario regionale PD, di cui sopra.

L’intervista è da leggere tutta. Un insieme di banalità, non sequitur, inciampi concettuali, vaghezza e vacuità che bene rende la mediocrità e la pericolosità politica del PD isolano e, con esso, dei cascami coloniali della politica italiana nell’isola. Facciamo qualche esempio.

Una domanda che poteva avere come risposta una riflessione, sia pure generale, sulla situazione dell’isola. Invece, come è inevitabile per questo personale politico, la risposta è tutta autoreferenziale e anche retorica, generica.

L’intervista prosegue, a proposito degli assetti post primarie. Comandini dice la sua.

Fuffa retorica senza alcun referente concreto, tanto meno in Sardegna. E parecchia ipocrisia, come però è probabilmente naturale, dentro quei meccanismi di selezione e di carriera.
Alle puntute e incalzanti domande – e “seconde domande” – di Alessandra Carta Comandini risponde svicolando e buttandola sul tono vittimista e rivendicativo, in questo rivelando a) la sua cattiva coscienza e/o b) la totale distanza dalla realtà sarda attuale, come anche dimostra plasticamente la sua risposta sulle vertenze a suo dire rilevanti cui il PD ha dato sponda o ha preso parte.

Alle successive domande, un po’ a trabocchetto, ma in senso buono, Comandini risponde cascando in pieno nella trappola.

E poi arriva il capitolo “insularità in costituzione”, dove il nostro dà il meglio (si fa per dire) di sé.
Contraddizioni, scarsa comprensione del tema e pochissima coscienza della sua portata. E la vaghezza etica e politica che fa esprimere al leader dell’opposizione un parere favorevole e addirittura encomiastico verso uno dei partiti cardine della attuale maggioranza, quei geni del male chiamati Riformatori sardi (idoli!). Con i quali Comandini auspica una alleanza elettorale tra meno di un anno. Al che la seconda domanda viene spontanea:
La risposta è un altro non sequitur. O forse una banale contraddizione. Non si capisce.

Nell’insieme, l’intervista è agghiacciante, se si pensa che questa dovrebbe essere la guida della coalizione che nel febbraio 2024 vorrebbe strappare la maggioranza alla destra sardo-leghista, fratelliditalista, democristiana e riformatorasarda.

A fare da contraltare, l’intervento in aula del presidente Solinas, alla cui registrazione video rimando per averne piena conoscenza. Anche in questo caso, al di là della maggiore capacità retorica di Solinas, il contenuto dell’intervento fa accapponare la pelle. A tratti sembra un discorso ricattatorio o, peggio, minatorio. Più da boss di quartiere che da leader politico. I richiami al federalismo e all’autonomismo sono contraddittori e si scontrano con la realtà del PSdAz attuale, trascinato da Solinas in un baratro di subalternità e irrilevanza. E lasciamo stare le vanterie sui presunti successi (per esempio i maggiori fondi ottenuti, ossia la rivendicazione positiva della dipendenza, in barba alle enunciazioni autonomiste; e comunque: dove sono andati a finire?).

Cosa trarre da questi due esempi concreti? Direi, prima di tutto estrema sfiducia e preoccupazione. Ma queste, almeno in chi segue la politica al di fuori dei gruppi di potere dominanti, sono scontate. Piuttosto, alla luce di tanta pochezza e delle sfide che ci attendono (per cui siamo già in ritardo), andrebbe fatta una riflessione su come costruire un’alternativa politica seria e responsabile a questo pastrocchio deleterio.

Dai trasporti alla sanità, dalla scuola all’energia e ai problemi ambientali, dallo spopolamento alla lacerazione del tessuto produttivo e delle comunità, non c’è ambito in cui non sia indispensabile non solo un cambio di rotta immediato, ma ancora prima un mutamento radicale di prospettiva. E anche queste sono cose già dette molte volte.

Mi pare che tante persone siano coscienti della situazione, ma ancora ci si gingilli con strane operazioni di recinzione dei propri angoli di comfort. Poco dibattito, molta polemica, una dose sempre eccessiva di settarismo e/o di snobismo. Eccessivo uso dei social e pochissima voglia di discutere dal vivo e di occuparsi collettivamente dei problemi sul tappeto. Non che non ci sia nulla in movimento: per fortuna non è vero, qualcosa si muove. Però mi pare che manchi la volontà di cimentarsi davvero con la sfida e si preferisca predicare bene senza razzolare, o razzolando male. E non consideriamo quelli e quelle che predicano bene, ma solo in attesa di essere cooptati/e dalla futura coalizione vincente (e intanto ci si arrovella per capire quale sarà).

Cosa deve succedere perché ci diamo davvero una mossa? Che l’Italia collassi e lasci libera l’isola? È una scommessa che non mi sentirei di sottoscrivere, anche perché il collasso dell’Italia, pure possibile, potrebbe designare la Sardegna come sua vittima sacrificale. Stiamo attenti a quello che desideriamo perché potrebbe avverarsi. No, meglio dotarsi di qualche piano, magari anche di un piano B, e riprendere in mano, ovunque e in tutte le circostanze e le forme di relazione, la politica. Senza aspettare favori o aiuti che non arriveranno o, se arriveranno, avranno un prezzo altissimo da pagare.

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