Capire poco, capire male, continuare a sbagliare

Non ci siamo. Si continua a ragionare su questa faccenda dentro una cornice fuorviante e con pochissima voglia di trovare soluzioni adeguate alla realtà.

Perché qui sta la magagna: la realtà della Sardegna è diversa da quella di Corsica e Baleari (e, per altri versi, da quella della Sicilia).

La Sardegna è tre volte più grande della Corsica e ha circa cinque volte i suoi abitanti. Rispetto alle Baleari (nel loro insieme) è quasi sei volte più grande e ha circa 400mila residenti ufficiali in più (ossia, una differenza maggiore della popolazione della Corsica).

Già solo da questi dati si evince una diversità tra situazioni che non possono essere sovrapposte meccanicamente solo perché si parla di isole.

La Sardegna ha un territorio molto più esteso e soprattutto più eterogeneo sia dell’una che delle altre isole vicine. La diversità interna – di ambienti, di climi, di popolamento, ecc. – ne fa una terra che qualcuno, retoricamente, ha paragonato a una sorta di mini-continente. È un’iperbole un po’ romantica, se vogliamo, ma in realtà enfatizza un dato vero.

Se dovessimo stilare una classifica dei problemi della Sardegna e delle loro cause, a quale posizione assegnereste il fatto di essere un’isola? Io lo metterei piuttosto in fondo, sicuramente dopo quattro o cinque altre questioni.

Una è la debolezza e la limitatezza produttiva. L’economia sarda è sproporzionata, in senso negativo, rispetto al territorio. Troppo piccola, troppo soffocata, troppo poco articolata. Dipende dal fatto che la Sardegna è un’isola? Solo in piccolissima parte (per non dire nient’affatto). In Sardegna si produce poco e spesso male, con conseguenze di ampia portata, che investono inevitabilmente i settori economici a più alto valore aggiunto, ossia quelli dei servizi, del terziario.

Purtroppo si ragiona – quando ci si prova – solo in termini ancora prevalentemente mercantilistici: bisogna vendere, esportare, attirare turismo e altre forme di appropriazione di ricchezza prodotta altrove. In cambio di cosa? Perlopiù di prodotti petroliferi, ma con un ruolo a dir poco secondario e pressoché del tutto dipendente e subalterno all’interno dell’economia italiana, europea e mediterranea. A dispetto dei salti di gioia mostrati dai mass media nostrani ogni volta che esce questo dato allarmante (ed esce ogni anno da anni).

È palese, a mio avviso, che bisognerebbe far pendere la bilancia economica più sul versante che nel Settecento avrebbero definito fisiocratico. Certo, una fisiocrazia aggiornata e calibrata. In ogni caso, ripartirei dai fondamenti, dal settore primario, dalle produzioni agricole e agro-alimentari, a cui aggiungerei l’industria di trasformazione, col suo indotto, e poi via via ad aggiungere manifattura (specie di qualità e non di mera quantità, ivi compresa la nuova industria del riciclo dei materiali), il terziario (non quello miserrimo dei centri commerciali, ma un terziario aggiornato, se non avanzato), un po’ di turismo (non troppo e non solo estivo).

Su questa base anche le esportazioni diventerebbero significative, ma non solo di idrocarburi. Anzi, quest’industria obsoleta e dannosa la accompagnerei il più rapidamente possibile alla chiusura (previo un corposo intervento di bonifica e messa in sicurezza a spese delle aziende che ci hanno lucrato fin qui, SARAS in testa).

Naturalmente, il tutto preceduto o comunque assecondato da una pianificazione della produzione e della distribuzione dell’energia adeguata al territorio sardo, alla sua demografia e alle sue esigenze socio-economiche, non certo – anche qui – alla mera esportazione, per giunta senza guadagno alcuno per l’isola.

Tutte faccende di cui dovrebbe occuparsi la politica sarda. Che invece è per sua natura – in quanto espressione di subalternità e di conseguente cialtronaggine – votata a tutt’altro: giochi di potere, clientelismi, beghe di fazione, opportunismo, servilismo verso i potenti a cui si deve la propria carriera.

Nel quadro generale della Sardegna attuale, che valore ha un discorso come quello esposto nell’articolo di cui sopra? Davvero ha senso continuare a propagandare la mortificante panzana dell’insularità e le conseguenti pretese di tutela e sostegno verso lo Stato italiano? È davvero la prima o addirittura unica opzione a disposizione di un’isola come la Sardegna?

Con ciò non voglio negare che alcune soluzioni adottate per le proprie porzioni insulari da altri stati, meno scalcagnati e meglio tenuti insieme dell’Italia, potrebbero essere adottate – e adattate – in Sardegna. Ci si può studiare su. Ma studiare, appunto. Ossia, capire e poi metterci del nostro.

Ci sono altre regioni italiane, non insulari, in cui l’impiego pubblico, compreso quello scolastico, assicura qualche vantaggio di reddito. Penso alle province autonome di Trento e Bozen-Bolzano, per dire. C’entra qualcosa l’insularità? No, che io sappia; a meno di sconvolgimenti tettonici di cui al momento però non c’è evidenza. Per altro le maggiorazioni nelle buste paga non arrivano come una generosa elargizione dello Stato, ma come previsione interna delle due realtà amministrative autonome.

Si dirà: ma Trentino e Sud-Tirol hanno più soldi. Vero, però questa obiezione la accetterò solo quando sarà finalmente ridiscussa e possibilmente risolta *non a vantaggio di Roma* la datata querelle della vertenza entrate. Sennò, di cosa stiamo discutendo? E comunque la Sardegna non soffre di penuria di denaro pubblico, dato che annualmente restituisce la maggior parte dei fondi europei per mancato utilizzo. Senza contare che, se si eliminassero sprechi e ruberie varie, anche col bilancio attuale della RAS si potrebbe fare molto di più e molto di meglio.

Sui trasporti il discorso è parzialmente diverso. I modelli adottati nel Regno di Spagna e in Francia sono molto più efficaci, equi ed efficienti della stupidissima “continuità territoriale” appioppata alla Sardegna. Perché non prendere spunto? Be’, prima di tutto perché in Italia e in Sardegna la prima regola della politica è soddisfare i gruppi di interesse del cui sostegno non ci si vuole privare. Quindi posso trovare la soluzione migliore del mondo, ma se si scontra con gli interessi di qualche forte gruppo industriale e/o finanziario, o di qualche corporazione particolarmente agguerrita, ho la ragionevole certezza che non verrà mai adottata. I bisogni anche basilari della cittadinanza, persino quando integrano diritti rilevanti, rimangono sempre in secondo piano. Le rare volte che si riesce a soddisfarli è sempre e solo in termini accessori, a volte preterintenzionali, a volte del tutto casuali.

Tanto più questo è vero nella colonia oltremarina sarda, dove persino la devastante occupazione militare di una parte consistente del suo territorio continua ad essere considerata normale, se non proprio positiva. Con la politica locale messa lì a garantirne legittimità e piena operatività. E i cattivi sono gli anti-militaristi, gli anarchici, gli ambientalisti e i soliti indipendentisti che vi si oppongono.

È penosa la continua richiesta di aiuto verso lo Stato centrale. Lo è in linea generale e lo è doppiamente perché lo Stato in questione è l’Italia. Non ci è bastato più di un secolo e mezzo per capire come funziona?

Chiaramente, questo approccio non è solo fine a se stesso. Serve anche a coprire le responsabilità della classe politica podataria nostrana. Se si spaccia per storicamente fondato l’assunto che la Sardegna da sola non ce la può fare, è ovvio che non ci resti che supplicare qualcuno di salvarci. E nel frattempo chi amministra la situazione in loco può farsi gli affari propri, sicuro di non dover rendere conto dei problemi mai risolti.

Come mi piacerebbe se una consistente maggioranza della popolazione sarda smettesse finalmente di credere a queste sciocchezze e si desse una svegliata. Smettesse di pendere dalle labbra di ciarlatani e faccendieri, di personaggi squallidi e piccoli guitti di provincia, ossia ciò che offre la nostra classe politica, e cominciasse a zittirli, a negare loro la propria fiducia e prima ancora la propria attenzione. Dandosi da fare per rimettere a posto le cose, magari. Chissà se arriverà mai quel giorno.

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