Tertium (non) datur (di Stefano Puddu Crespellani)

Ricevo e ospito volentieri questo intervento di Stefano Puddu Crespellani riguardo a un tema già affrontato su SardegnaMondo.

Preciso che, oltre ad ospitarlo, ne condivido lo spirito e il contenuto. Sarebbe ora che le forze politiche e sociali alternative al blocco storico clientelare-affaristico-coloniale che domina l’isola si esprimessero e decidessero come muoversi. Lo scenario è complicato, ma questo non esime dal prendere posizione. Penso al mondo indipendentista, nelle sue varie articolazioni. Penso ai movimenti ambientalisti e ai comitati civici. Penso alla sinistra non organica al centrosinistra italiano e al sardismo non piegato ai rapporti di forza subalterni cui l’ha condannato il PSdAz a guida Solinas. Cosa intendete fare?

Disperdere le forze, alla ricerca di vantaggi tattici di corto respiro; aspirare a un’egemonia che sarà sempre irraggiungibile, pretendendo ruoli di guida che sono fuori dal tempo e dalle cose; ignorare le forze reali che si muovono nel contesto sardo all’esterno dei recinti protetti e presidiati delle varie sigle: sono tutte tentazioni forti a cui si è ceduto e si cede ancora con troppa facilità. Non ce lo possiamo più permettere.

Questo intervento di Stefano può essere utile come base di ulteriore riflessione e come spunto per il rilancio di un dibattito necessario. A patto che non rimanga ostaggio dei meccanismi social e relegato a un livello puramente retorico.

Buona lettura.

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È evidente che la Sardegna ha un bisogno tremendo di trasformare il proprio contesto politico (per concentrarci sull’ambito più disastroso della nostra vita collettiva, pur senza nulla togliere al bisogno di cambiamento nella cultura, la società, l’economia, ecc.). Una trasformazione che significhi rinnovamento e ricambio generazionale, insieme ad un cambiamento sostanziale di logiche e di pratiche di governo democratico.

Il motivo per cui questa imperiosa necessità stenta a trovare uno sbocco politico reale è dovuto, in buona misura, alla legge elettorale attuale, un dispositivo antidemocratico concepito per rafforzare la struttura bipolare della rappresentanza (ovvero, la gestione del potere affidata a piccole consorterie in beneficio dei grandi interessi), nonché per decapitare ogni velleità di costruire qualunque ipotesi di proposta alternativa.

Se n’è parlato a lungo ma forse non abbastanza. Chiunque voglia costruire una “proposta terza”, cioè una alternativa politica, si trova davanti a un mostro bicefalo che usa tutte le sue armi (soldi, controllo dei mass media, uso dei social) per schiacciare, screditare, mettere a tacere, ridicolizzare qualunque proposta ulteriore; quando non sceglie, magari, i canti di sirena per attrarre e assorbire, ovvero neutralizzare, le proposte nuove.

Nel caso improbabile che questo non bastasse, la legge elettorale viene in loro soccorso, a cominciare dalle difficoltà che pone a chi vuole presentare una lista nuova: per esempio, svariate migliaia di firme autenticate, di cui non ha bisogno invece chi è già nel palazzo. Poi ci sono gli sbarramenti, secondo cui una coalizione alternativa deve raccogliere alla sua prima uscita oltre il 10% dei consensi (un risultato difficilissimo).

Ma la norma più perversa è quella per la quale, dei candidati a presidente, ne passano soltanto due; il terzo viene escluso. Per cui una forza alternativa deve non solo trovare una leadership credibile, ma essere disposta, allo stesso tempo, a bruciarla. Sull’altro versante, ha gioco facile l’idea velenosa del “voto utile”, secondo la quale per vincere l’avversario è necessario votare il candidato “forte” del polo opposto.

Questo gioco al massacro ha degradato, di fatto, il terreno politico sardo, da decenni. Le regole del gioco premiano il peggio e annullano qualunque novità, o la relegano in una zona di relativa irrilevanza. E qualora una irrefrenabile spinta al rinnovamento faccia nascere una proposta nuova, per idee, persone e dinamica di partecipazione, ecco che tutti i dilemmi si ripropongono, pressanti e poco risolubili, come altrettanti koan.

Come si può portare alle elezioni una proposta politica di trasformazione se, per competere con entrambi i poli, sei obbligato ad adottare le loro stesse strategie, cioè diventare molto simile a ciò da cui vuoi differenziarti? Come non cedere alla tentazione di allearti con uno dei due schieramenti per aggirare le difficoltà economiche e logistiche che sono inevitabili se vuoi mettere in moto una proposta elettorale?

C’è infine, l’ultima variabile, spesso la più insidiosa: perché la volontà di costruire una proposta “terza” nasce spesso da più parti; in Sardegna, per esempio, ci sarebbero, tra le altre, le istanze indipendentiste (che al loro interno sono diverse), i pentastellati, l’arcipelago di quella sinistra che si dichiara incompatibile col PD. Da qualche mese, poi, è sorta una proposta “giovane” dal nome suggestivo: “Sardegna chiama Sardegna”.

Vorrei soffermarmi un attimo su questa proposta, che mi sembra sia partita col piede giusto, per la capacità di coinvolgere “la base della piramide” (i territori e i giovani), mettendo al centro del dibattito problemi reali e stringenti (salute, lavoro, educazione, sviluppo autocentrato, ecologia, giustizia sociale, autogoverno): come affrontano i koan elettorali? Come concepiscono la creazione dello “spazio terzo”?

Sul piano concreto, la legge elettorale offre pochi margini di dubbio: se già c’è poco spazio per una proposta terza, direttamente non ce n’è alcuno se le proposte sono varie. Peraltro, mettersi d’accordo è l’eterno problema. Su quale base ci si unisce? Occorre, davvero, una grande capacità di sintesi, o forse semplicemente una visione generale del contesto, una mente aperta e una certa onestà intellettuale.

Il punto comune potrebbe essere, certamente, la volontà di trasformare in modo nuovo il contesto politico, e cioè rompere il meccanismo bipolare che regge la disfunzionalità della politica sarda (in salsa italica); il che significa anche impegnarsi a cambiare la legge elettorale come una delle priorità elettorali condivise; nonché l’indisponibilità a essere stampelle per le politiche sostenute da qualunque degli altri due schieramenti.

Insomma, se andare insieme è un obbligo pratico non si tratta di situare i paletti nel terreno delle “parole d’ordine” di carattere ideologico, bensì su delle scelte di campo procedurali, che siano funzionali a quella trasformazione del contesto di cui si parlava in apertura; una di queste è la pratica del coinvolgimento e dell’ascolto dei territori e delle persone “senza voce”, o semplicemente inascoltate. La democrazia di base, insomma.

Il terzo criterio sarebbe proprio quello di non ricadere nel gioco dell’inciucio, né col PD, né col PSd’Az, insomma con nessuno dei protagonisti di questa degradazione tremenda della vita politica sarda; bisogna davvero voltare pagina, cominciare qualcosa di nuovo, cambiare linguaggio, rinnovare le persone e i luoghi, stabilire patti che non siano di spartizione ma di aratura e semina; patti di assunzione condivisa di responsabilità.

La grande sfida per la politica sarda è proprio la creazione di questo spazio “terzo”. È una necessità di sopravvivenza. Proprio per questo è così importante essere lucidi e insieme generosi, mettere da parte le questioni secondarie e concentrarsi su quelle essenziali, trovare formule che rispettino le diversità dei percorsi politici, mantenendo la rotta comune di un nuovo dialogo della società con la politica, e viceversa.

Se la base è paritaria, se le priorità condivise hanno a che vedere con le pratiche e non con l’ideologia, se l’intenzione è quella di farsi forti della diversità e anche della fragilità di ciascuno, ci sarebbe la possibilità di creare un accordo che faccia da vomere per rompere il terreno indurito della politica sarda, dare aria alle zolle, fare emergere quella ricchezza di microorganismi che molti danno per perduta, e invece esiste.

Verrebbe da immaginare che questa sfida della “terzietà” non è un compito che vada affidato a una generazione di politici che si avvicina alla terza età; occorre non solo esperienza e competenza ma una ragionevole dose di entusiasmo, e la capacità di trovare soluzioni immaginative, non convenzionali, per lavorare insieme a chi è diverso per un obiettivo comune. E chi riunisce insieme queste capacità sono le persone giovani.

“Sardegna chiama Sardegna” ha il potenziale per essere l’embrione di un “Sardegna cambia Sardegna”, come contenitore elettorale di uno spazio politico terzo, in cui possano convivere anime diverse, disposte ad ammainare, per qualche tempo, la propria bandiera, per cambiare insieme il contesto politico e renderlo più propizio al pluralismo democratico, oggi soffocato da una legge capestro che va sconfitta e cambiata.

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