Il Cagliari calcio di Tommaso Giulini, imprenditore lombardo, è costretto a cambiare allenatore in corsa, nel campionato di serie B, e si affida a una figura amata e desiderata dalla piazza. Un regalo di Natale che sembra riaccendere l’entusiasmo. Ma forse c’è anche dell’altro.
Perché parlare di calcio sotto le feste, con tutto quello che di drammatico succede nel mondo? E poi, dopo l’abbuffata del campionato mondiale in Qatar, anche basta. Lo penserà qualcuno e lo penserei io stesso, probabilmente.
La faccenda del ritorno di Claudio Ranieri al Cagliari, però, non smette di stuzzicare il mio senso di ragno.
Claudio Ranieri è un grande allenatore e un signore, su questo critica e pubblico concordano. In Sardegna, tra chi segue il Cagliari, è molto amato, in virtù del suo fantastico triennio, tra 1988 e 1991, in cui riportò la squadra dai bassifondi della serie C a una salvezza clamorosa in serie A.
La sua carriera ha avuto momenti di grande lustro e altri di risultati meno brillanti, ma ha lasciato il segno in diverse piazze ed è entrato di diritto nella storia del calcio contemporaneo con l’impresa a Leicester, in Premier League.
Ora il ritorno a Cagliari, a fine carriera, in serie B e in una situazione tutt’altro che facile, sa molto di richiamo del cuore, di scelta sentimentale, ampiamente ricambiata da una piazza intristita e scoraggiata.
Qui suona già un primo campanello d’allarme. La scelta del presidente Giulini, nient’affatto amato dalla tifoseria, appare come un’astuta mossa padronale (cit.), un colpo di marketing, più che una scelta strategica. E lo sembra perché nel complesso l’approccio della presidenza Giulini in questi anni ha sempre dato l’impressione di essere questo. Nessuna chiarezza sul progetto a lungo termine, scelte cervellotiche e perlopiù sbagliate, qualche nome altisonante rivelatosi poco utile alla causa ma buono per tacitare il dissenso, nessun vero trasporto affettivo ed emotivo.
Sullo sfondo, il grande affare del nuovo stadio. Una telenovela a sé stante, che in questi stessi giorni si sta rivelando meno lineare e trasparente di quanto dovrebbe essere. Quella dello stadio ha l’aria di essere una partita decisiva, più di quelle che si giocano sul rettangolo verde, per la presidenza Giulini.
In troppi aspetti questa dirigenza, così attenta alle apparenze e alla comunicazione, ha fatto errori difficili da capire proprio sul piano delle apparenze e della comunicazione. È come se Giulini e i suoi non conoscessero il contesto in cui si muovono e non sapessero bene cos’hanno davvero in mano.
Del resto, l’arrivo a capo della società di un imprenditore lombardo, legato ai Moratti, tifoso dell’Inter (nel cui consiglio di amministrazione sedeva fino a poco tempo prima di acquistare il Cagliari), senza altri legami con la Sardegna se non l’azienda di famiglia (la Fluorsid) aveva suscitato fin da subito riserve e perplessità nella tifoseria.
L’uso dello sport, e del calcio in particolare, come diversivo e strumento di captatio benevolentiae in mano alla classe padronale forestiera non è una novità, in Sardegna. L’intervento salvifico di Angelo Moratti a favore del Cagliari, all’epoca di Gigi Riva, è storia nota. Così come è storia nota che durò poco. Giusto il tempo di rendersi conto che quel Cagliari non era una semplice succursale dell’Inter (di cui Moratti era padrone e presidente) ma una temibile concorrente. Fallito il tentativo di portarsi via Gigi Riva, Moratti aveva mollato il giocattolo al suo destino. Non gli era nemmeno tanto riuscita la manovra di ammansire l’opinione pubblica e azzerare critiche e voci contrarie, dato che proprio quegli anni furono anni di grandi mobilitazioni sociali e politiche e di conquista di consapevolezza diffusa nell’isola (per un minimo di approfondimento, rimando a quanto ne avevo scritto per menelique un paio d’anni fa).
Il calcolo di normalizzare la situazione tramite i successi calcistici, con tutta probabilità, non fu soltanto una trovata padronale di un capitano d’industria. È lecito supporre che la cosa andasse bene anche all’apparato di sicurezza dello Stato, piuttosto allarmato dalla piega che sembravano poter prendere gli eventi in Sardegna (pensiamo all’interesse di Giangiacomo Feltrinelli per l’isola, ai fatti di Pratobello nel 1969, al “complotto separatista”, al periodo dell’eversione armata lungo gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, e via dicendo).
Sia come sia, questa faccenda che basti prendersi il Cagliari e farne uno strumento di manipolazione dell’opionione pubblica per avere il controllo della situazione in Sardegna, o anche solo per garantirsi diffuse simpatie e una buona dose di indulgenza generalizzata, non era stato un buon affare allora e non lo è nemmeno oggi. E Giulini lo sta scoprendo a sue spese.
Nemmeno questa mossa del richiamo di Claudio Ranieri, che sa così smaccatamente di fan service, basterà a fargli recuperare credito. Anche qualora il tutto non si rivelasse, come qualcuno teme, un completo disastro.
Il problema del Cagliari, così come, ormai, in larga misura anche della Dinamo basket Sassari, è che non si tratta solo e semplicemente di sport (in proposito ho scritto qualcosa qui). Chi però vede in questo fatto solo alcuni dei suoi aspetti – come appunto quello del facile mezzo di consenso – non capisce che i risvolti sono anche e soprattutto altri.
Il motto del Cagliari calcio è: una terra, un popolo, una squadra. Bello, non c’è che dire. Evocativo, forse. Un po’ enfatico: non è vero che tutte le persone che seguono il calcio, in Sardegna o nell’emigrazione sarda, fanno il tifo per il Cagliari. Però ci sta. Naturamente, è scritto sempre e solo in italiano, come la maggior parte della comunicazione del Cagliari. A parte il solito slogan “fortza Casteddu”, usato spesso ma quasi sempre scritto in modo scorretto (“forza Casteddu”).
La Dinamo, su questo piano, è decisamente più avanti e più intelligente, nalla propria comunicazione.
Cosa significhi il Cagliari per la Sardegna non è certo riducibile a qualche elemento di comunicazione identitaria. Il calcio è uno strumento politico potente, ma è anche un fatto di appartenenza, di auto-riconoscimento, di passione e di sentimento. Trasmette molto, oltre a garantire momenti di svago (sempre meno economici e alla portata di tutt*, va detto). Cosa trasmette oggi il Cagliari calcio ai suoi tifosi? Direi: depressione, senso di fallimento collettivo, pessimismo.
Il calcio oggi è anche un ambito affaristico, e non di poco conto, per quanto possa suonare strampalata l’idea di trarre profitti da un’attività economica che non produce nulla, se non svago, appunto. Ci sono il mechandising e gli altri benefici economici più o meno diretti, generati dalle società calcistiche professioniste. Aspetti che vanno saputi coltivare, alla luce del proprio bacino d’utenza e delle potenzialità che esso offre. In più, specie per piazze come Cagliari, c’è un aspetto di promozione territoriale che esiste persino a prescindere dalle intenzioni degli attori coinvolti. È un aspetto inevitabile. Il calcio è uno sporto estremamente popolare, le partite dei campionati italiani, anche di serie B, vengono viste pressoché in tutto il mondo. Le vittorie e le sconfitte e il modo in cui si conseguono non è solo un fatto sportivo. Il Cagliari, volente o nolente e anche a dispetto della fetta di cittadinanza che odia o ignora il calcio, rappresenta la Sardegna.
In questo senso, il fallimento del Cagliari o in generale le sorti dello sport di grande livello, nell’isola, hanno un significato che travalica di molto gli stessi interessi di chi vi investe direttamente. Ed è per questo che le istituzioni pubbliche vi impiegano qualche voce dei propri bilanci. Non c’è nulla di sbagliato, a patto che vi sia un ritorno di qualche tipo. Qual è il ritorno che offre il Cagliari calcio di Giulini alla collettività cui fa riferimento e alle istituzioni che vi investono denaro pubblico?
Per la propria natura e per il tipo di tifo che la sostiene, una squadra come il Cagliari si presta poco ad essere usata per gli scopi esclusivi e insindacabili di una proprietà privata. È un modello che non funziona. Non funziona, perché non può competere con le grandi realtà calcistiche italiane e internazionali, data la sproporzione di mezzi, e non funziona perché il Cagliari non sarà mai solo il giocattolo, o la fonte di profitto, di chi ne detiene la proprietà legale.
Il Cagliari potrebbe certo diventare oggetto di investimenti consistenti da parte di qualche grande opratore nel settore, tipo il Qatar. Del resto, il Qatar è già padrone di un bel pezzo di Sardegna. E allora magari si potrebbero ottenere, per qualche tempo, risultati sportivi di rilievo. Ma sarebbe come far dipendere qualcosa di importante per noi dalla volontà di un soggetto del tutto estraneo e completamente disinteressato alla nostra sorte, se non per i vantaggi che ne può trarre. (Un po’ come aspettarsi che lo Stato italiano faccia gli interessi della Sardegna, magari in virtù dell’inserimento in costituzione del principio di insularità, diciamo.)
D’altra parte, forse a chi gestisce gli affari qatarioti non interessa investire ancora nel calcio, dato che ha già impighi consistenti di denaro in questo ambito (vedi la squadra del Paris Saint Germain, quella di Messi e Mbappe). Inoltre, ai loro occhi il consenso necessario ad avere mano libera per i propri interessi nell’isola è più facilmente conquistabile in altri modi. Che ne so – faccio per dire – per esempio garantendosi l’appoggio dell’intera leadership politica sarda (sicuramente spontaneo e discendente da pura convinzione ideale).
In definitiva, non c’è verso che il Cagliari conquisti la posizione sportiva che la sua tifoseria auspica e si aspetta, se non muta radicalmente il suo modello societario. La Sardegna non dispone di un’economia così forte da produrre redditi e profitti a sufficienza per alimentare un circuito poco produttivo come lo sport professionistico ai massimi livelli. Non oggi, almeno. E non si può certo sperare che intervengano grandi investitori forestieri, che o non hanno interesse a farlo o non garantiscono alcuna vera corrispondenza alla passione e al senso di appartenenza della tifoseria.
Non so come, non so quando, ma il Cagliari, per tornare ad essere la squadra “di una terra e di un popolo”, dovrebbe davvero… provare ad esserlo. Magari mutuando una soluzione collaudata da altre realtà. Per esempio, una realtà come l’Athletic club di Bilbao, Paese Basco. O le squadre tedesche, di proprietà delle proprie tifoserie. Un azionariato diffuso, con giusto qualche sponsor a supporto e il mantenimento del sostegno istituzionale: potrebbe essere la ricetta per svoltare.
Il Cagliari, dopo tutto, ha un bacino di sostegno di circa un milione di persone. Non è poco. È paragonabile a quello di una grande squadra metropolitana euopea. Niente a che vedere con il livello delle realtà provinciali, a cui di solito invece la si ascrive.
Succederà mai? Difficile dirlo. Lo scetticismo è legittimo. Però se ne può discutere. Sempre meglio che limitarsi a mugugnare e mandare giù continuamente bocconi amari, senza poterci fare nulla.
Tutto questo discorso non vuole suonare banalmente pessimista, tanto meno menagramo. Anzi, spero davvero di essere eccessivamente sospettoso verso la presidenza Giulini e di essere smentito da risultati clamorosi sul campo e da una politica societaria finalmente cosciente del contesto in cui agisce e rispettosa della terra che la ospita.
Sono considerazioni che però vanno fatte, prendendo seriamente quello che non è solo un gioco, come recita giustamente – e in sardo – il motto della Dinamo basket Sassari. Certo, non confido che tocchino minimamente la dirigenza attuale del Cagliari, ma forse serviranno come contributo alla discussione, al di là della gioia legittima per il ritorno di Claudio Ranieri e delle aspettative che esso genera.