È complicato gestire una situazione eccezionale come una pandemia, contemperando le esigenze di territori diversi per estensione, demografia e condizioni sanitarie. Aggiungerci il carico delle reazioni compulsive e della disinformazione è un po’ troppo.
Nei giorni scorsi si è letto e sentito di tutto, con la solita coda di polemiche social senza capo né coda. Proviamo a fare un po’ d’ordine, partendo da qualche dato di realtà.
Il contagio da SARS-CoV2 è esteso e sostanzialmente fuori controllo, per via – si dice – delle nuove varianti. Molti territori sono di nuovo sottoposti a uno stress notevole, visti i limiti del servizio sanitario, per nulla adeguato, in questo anno di pandemia, alla nuova sfida. La vaccinazione di massa procede al rilento e chissà quando produrrà effetti consistenti. Sperando che li produca.
L’unico territorio per adesso in condizioni accettabili è la Sardegna. È un vantaggio relativo e precario, dovuto a fattori oggettivi: il fatto di essere un territorio separato e distante rispetto al resto dello stato; una bassa densità demografica; la distribuzione della popolazione in centri per lo più piccoli o piccolissimi (quindi più facili da monitorare e nel caso isolare); condizioni ambientali più favorevoli rispetto alla vasta area del Nord Italia e alle grandi aree urbane della penisola.
Le strutture sanitarie e l’organizzazione della risposta al contagio sono però ancora deficitarie. A parte annunci e diversivi, nell’isola in questo anno non si è fatto nulla di sostanziale per adeguarsi alle necessità. Nessun incremento del personale, nessuna riorganizzazione territoriale dei servizi sanitari, mediocre e a volte pessima organizzazione del monitoraggio e delle operazioni di vaccinazione.
Queste sono situazioni palesi e sotto gli occhi di tutti. L’arrivo di alcune migliaia di persone da zone d’Italia dove il contagio è alto comporta dei rischi oggettivi, che non dipendono dalla cattiva gestione regionale, né dalla maggiore o minore xenofobia dei sardi o dal parere di qualche politico. I controlli agli arrivi nei porti e negli aeroporti non sono capillari, né così cogenti (ossia obbligati e non eludibili) da garantire la riduzione al minimo del rischio.
Per altro, come dimostrano fatti documentati dei giorni scorsi, molte delle persone che arrivano in Sardegna non mostrano il benché minimo senso di responsabilità, aggirando i controlli, non fornendo le generalità o fornendole false, approfittando delle minori restrizioni del regime di “zona bianca” per frequentare ritrovi pubblici e girare liberamente.
La risposta politica da parte del presidente Solinas è stata tardiva e approssimativa, dapprima con la disposizione dei controlli agli arrivi, poi con l’ordinanza restrittiva del 17 marzo scorso. Consideriamo che già le disposizioni sui controlli agli arrivi erano state fatte oggetto di recriminazioni e persino insulti da parte di aspiranti vacanzieri, nei soliti termini volgarmente colonialisti e razzisti che troppi italiani riservano alla Sardegna quando non possono usufruirne a proprio piacimento. L’ordinanza restrittiva del 17 marzo ha provocato ulteriori proteste.
I mass media italiani hanno ignorato il problema a lungo, benché sull’isola e anche nella comunità sarda della diaspora se ne discuta da settimane. Da ieri l’attenzione è aumentata, proprio in virtù della nuova ordinanza. Con quali toni? I soliti.
Ieri, su Repubblica online, Alessandra Ziniti scriveva:
Roma. Le duemila ville della Costa Smeralda a Pasqua rimarranno chiuse. Quelle del golfo di Napoli, dipende da chi è il proprietario o l’affittuario: se è campano dovrà rinunciare, se invece viene da qualsiasi altra parte d’Italia potrà andare. Anche chi abita altrove e ha uno chalet di montagna in val d’Aosta o Alto Adige non potrà usufruirne. E la Versilia e il Chianti si preparano a fare lo stesso: sbarrare le porte ai proprietari di seconde case nonostante il governo abbia deciso che, anche nei giorni di Pasqua in cui tutta l’Italia sarà in rosso, sia possibile trasferirsi con la famiglia nell’abitazione in cui si è soliti passare alcuni periodi dell’anno.
Fonti di governo confermano: niente pranzi al ristorante, niente viaggi per turismo ma almeno passare la Pasqua con il nucleo familiare convivente sì. E in queste ore, dopo le fughe in avanti di alcuni governatori che sono andati ben oltre le loro prerogative, si valuta l’impugnativa delle ordinanze di Sardegna, Val d’Aosta, Alto Adige che hanno vietato l’ingresso nei loro territori ai proprietari di seconde case a meno che non debbano raggiungerle per motivi di lavoro, di salute o di necessità.
Provvedimenti illegittimi secondo il costituzionalista Pietro Ciarlo: «Le regioni non possono bloccare gli arrivi. Solo il governo nazionale può limitare la libera circolazione tra le regioni. I controlli in ingresso, disposti a livello regionale, sono già ai limiti di ciò che l’ordinamento può contemplare». Insomma, una cosa è disporre l’obbligo di tampone negativo per chi arriva, come ad esempio fa la Sicilia ormai da tre mesi, altro è impedire l’ingresso e privare i cittadini dell’utilizzo di un bene inalienabile come la propria casa.
Per poi aggiungere, riguardo alla Sardegna:
Il governatore sardo avrebbe voluto limitarsi ad un inasprimento dei controlli sui tamponi dei viaggiatori in porti e aeroporti ma ha dovuto cedere alle forti pressioni di quanti temono di perdere il primato di unica regione bianca d’Italia con un ritorno del virus portato dai viaggiatori in arrivo da altre regioni. E dunque Sardegna chiusa ai non residenti fino a Pasquetta.
Lo sguardo è sempre quello padronale, che dal centro si apre sui margini, sulle periferie, sentendole come proprie propaggini illegittimamente recalcitranti verso l’autorità centrale. Quelle dei presidenti di regione (non “governatori”, accidenti al pressapochismo giornalistico!) sono “fughe in avanti”. A discapito di chi o di cosa? Del diritto dei proprietari di seconde case di farsi qualche giorno di vacanza in località più amene di quelle in cui vivono di solito.
Desiderio comprensibile, ma che perde qualsiasi consistenza davanti all’esigenza di contenere un contagio deleterio sia per la salute sia per la qualità dell’esistenza di tutt*.
Mi farei anche delle domande su quanto sia bello vivere nei posti di provenienza di tutti questi vacanzieri, vista la furia con cui si indispettiscono non appena gli si impone di restarci. Stride un po’ con la prosopopea paternalistica (=razzista, colonialista) con cui di solito danno lezioni di vita agli indigeni dei loro luoghi di villeggiatura.
A proposito di paternalismo da buon buana bianco, un osservatore sempre loquace riguardo alla Sardegna è Beppe Severgnini. Non poteva mancare la sua opinione:
Le spiagge di Monti Russu, in Gallura, sono un paradiso terrestre. Niente costruzioni: solo sabbia, rocce, pinete, cespugli e mare. Costa settentrionale, comune di Aglientu, pochi chilometri da casa. Ci torno per Pasqua? Non posso. Il governatore della Sardegna, Christian Solinas, ha deciso di imitare i colleghi di Valle d’Aosta, Alto Adige e Campania, e ha emesso una nuova ordinanza: vietato l’accesso alle seconde case, in nome della salute pubblica. In Sardegna i non-residenti entrano solo per motivi di necessità o salute.
Ma Valle d’Aosta, Alto Adige e Campania, purtroppo, sono zone rosse: i turisti pasquali troverebbero quasi tutto chiuso. La Sardegna è l’unica zona bianca d’Italia, come sappiamo. Vuol dire bar e ristoranti aperti, anche la sera fino alle 23. Vuol dire gente in giro, giallo delle ginestre, viola della lavanda, verde sulle colline e azzurro dell’acqua. Non male, per una zona bianca. Quindi, che senso ha vietare l’accesso alle seconde case?
Il senso è proprio quello di continuare ad essere zona bianca, è così difficile da capire? E non è certo un fatto meramente simbolico. Siccome la Sardegna è zona bianca dovrebbe accogliere liberamente chiunque, da ovunque arrivi? Quanto ci metterebbe a diventare zona rossa? Perché ovviamente, caso mai non fosse chiaro, se i visitatori causassero un consistente aumento del contagio nell’isola, esso sarebbe attribuito alla Sardegna, non certo alle regioni di provenienza. O ci siamo dimenticati cosa è successo tra estate e autunno dello scorso anno?
Il pezzo di Severgnini poi prosegue chiarendo che comunque era lecito fare qualcosa, che i sardi avevano – e hanno – ragione a preoccuparsi, perché i controlli erano – e sono – aggirabili e dunque tutto sommato l’ordinanza restrittiva ha un senso. Quindi alla fine tutto si riduce al dispiacere di Beppe Severgnini, grande amante della Sardegna, per non poter raggiungere la sua confortevole magione nella colonia oltremarina. Circostanza che, per grande che possa essere la stima e la solidarietà verso di lui, non ha il benché minimo peso, in tutta questa vicenda.
Come finirà questa storia? A naso, con un’impugnazione da parte del governo, dunque con la Sardegna di nuovo esposta al libero uso dei suoi veri padroni (ossia, non chi ci vive, ma chi ci va in vacanza), probabilmente precipitata di nuovo in una condizione di emergenza sanitaria, alle porte dell’estate. Con buona pace di chi, oggi, depreca le restrizioni perché “penalizzano il turismo”.
Le lezioni da trarre da tutta la faccenda sono diverse, nemmeno tanto inedite.
Intanto, resta chiaro che il rapporto tra Sardegna e Italia rimane un rapporto sbilanciato e gerarchico. Nessuno, nella classe politica sarda, ha mai fatto niente per far mutare anche solo esteriormente questa forma di subalternità, che va oltre la sfera giuridica. Del resto, come avrebbe potuto riuscirci una classe politica mediocre, debole, selezionata sulla base della sua obbedienza a centri di potere e di interesse esterni?
Diamo un’occhiata a come si sono mosse le forze politiche rappresentate nel Consiglio regionale. Qualcuno ha percepito coscienza dei problemi e intenzioni di affrontarli con decisione? Non so voi, io ho constatato solo attendismo, pressapochismo, pavidità e opportunismo.
Il giornalista Chicco Fresu, su Facebook, scriveva il 17 marzo:
Ieri sono state rese pubbliche, con comunicati stampa e post, le posizioni di Lega e Pd, sardi, che avevano lo stesso tenore: no al blocco, sì a più controlli, con annesso appello alla responsabilità dei viaggiatori (che hanno pensato “eccerto…”). Lega e Pd, ripeto. Che su fronti opposti in Sardegna – diciamo così, dai – a Roma governano insieme. Posto che non ho capito cosa attualmente sia il Pd, fa strano vedere che i due partiti condividano una posizione, da questa parte del Tirreno, solo perché bisogna sostenere quella dell’esecutivo italiano. Anzi, più che fare strano, mette un po’ di tristezza. Perché nessuno di chi la difendeva ci credeva davvero. Questo atteggiamento non fa bene alla Sardegna.
Non “fa strano”, è del tutto normale, dato che si tratta di forze politiche dipendenti e dipendentiste. “Mette tristezza” solo perché è una situazione abituale. Alla quale ci si sottrae togliendo ogni consenso e ogni legittimità democratica a queste finzioni sceniche, scalcinate propaggini oltremarine dei partiti italiani, buone solo a tenere a bada una popolazione che della democrazia deve intravvedere ed esercitare solo le forme esteriori.
Le stesse titubanze del presidente Solinas, nei giorni scorsi, sono state stigmatizzate anche da tanti che lo hanno votato, pur sapendo che stavano votando il delegato coloniale di un padrone straniero. Come altre volte. Prima o poi cominceremo a porci davvero il problema, spero.
Problema che è profondo, non contingente. Non c’è bisogno di riepilogarlo, dato che se n’è parlato tanto, da queste parti, anche di recente.
Mi preme chiudere con una nota sulle reazioni dei sardi, invece. Ho notato che in molti hanno preso le distanze da chi chiedeva misure restrittive verso i non residenti nell’isola. Le accuse di razzismo rivolte ai sardi renitenti all’accoglienza del visitatore avventizio sono arrivate non solo da italiani delusi, ma anche da sardi che ci tengono a distinguersi dalla massa dei nativi.
L’accusa di razzismo è ridicola e anche offensiva. In proposito Andria Pili scrive (purtroppo ancora su Facebook):
[…] trovo […] sconcertante […] l’atteggiamento di chi cade dal pero e anziché cercare di comprendere le ragioni di un diffuso risentimento lo dipinge come una forma di “intolleranza” e addirittura “razzismo” contro i proprietari di seconde case (e la vedo una mancanza di rispetto innanzitutto verso chi in Sardegna il razzismo lo subisce sul serio, da parte dei sardi ovviamente, oltre a dimenticarsi il razzismo antisardo emerso la scorsa estate) e magari – partendo da questa finzione – deve ovviamente tirare fuori una serie di luoghi comuni sul presunto “isolazionismo” dei sardi che sarebbe responsabile di tutti i mali dell’isola. Una descrizione dei sardi, della Sardegna e del rapporto con gli italiani, totalmente irreale e utile soltanto per convincersi di essere migliori degli altri sardi (immagino per sentirsi meno sardi e più italiani ). Ciò che mi fa storcere il naso di questa indignazione temporanea è che si tratti della ennesima occasione persa; chiunque può pretendere di rappresentarla (e infatti è successo, anche perché ovviamente puoi essere il peggior politico dell’universo, ma non puoi comunque rischiare di inimicarti l’opinione pubblica) rimuovendo totalmente ogni riflessione sulla nostra condizione di subalternità, sulla relazione asimmetrica che ci coinvolge e la cui messa tra parentesi genera sia le narrazioni sul “vittimismo” dei sardi – che al contrario mi pare una forma di “blaming the victim” e trovo molto vittimista, invece, lagnarsi di non poter andare nella propria seconda casa a farsi la Pasqua in un contesto di pandemia […].
Ecco, questo è quanto. Di materiale di riflessione ce n’è fin troppo. Intanto, vediamo di non abboccare sempre, in modo pavloviano, a ogni sollecitazione emergenziale e ad ogni diversivo. Concentriamoci sulle cose essenziali. La Sardegna non è al sicuro da alcun punto di vista. Non da quello sanitario, sempre precario, né da quello socio-economico, né da quello politico. E non dipende (solo) dalla pandemia. Quand’anche ne uscissimo rapidamente e senza troppe vittime, i nostri problemi strutturali resterebbero tutti sul tappeto. Il fatto che la situazione di emergenza li enfatizzi dovrà almeno servire a non perderli di vista troppo velocemente e a provare, finalmente, ad affrontarli.