La legittimità e la necessità del processo di autodeterminazione, in Sardegna, ha poco a che fare con il nazionalismo, l’etnocentrismo e l’identitarismo. Lo stesso indipendentismo sardo non ha le idee chiarissime, in merito.
In proposito, la situazione in cui ci troviamo oggi, relativamente alla gestione della pandemia, ci offre un esempio concreto estremamente significativo, su cui riflettere.
La Sardegna è stata dichiarata “zona bianca”, non su autonoma iniziativa della sua amministrazione regionale, bensì per decisione governativa. Se e quanto abbia avuto peso un eventuale parere della Regione, non lo so; in ogni caso, non sarebbe stato decisivo.
Ricorderete quando, mesi fa, l’isola era stata indicata, dai mass media e da molti politici italiani, come focolaio, “untrice”, dell’ondata epidemica autunnale. Dopo di che, era stata tenuta a bada con il guinzaglio corto della “zona arancione” fino a poche settimane fa. Tutt’a un tratto, infine, la novità della “zona bianca”, unica regione dello stato italiano.
Un giusto riconoscimento? Non si saprebbe perché, dato che la gestione emergenziale della giunta Solinas è stata dal pasticcione in giù. Un regalo sospetto? È quello che pensa e scrive, per esempio, Andrea Pubusa, sul suo blog.
Anche io ho concepito pensieri sospettosi al limite della teoria del complotto. Vorrei capire chi sta arrivando in Sardegna e perché, in questo periodo. E ancora di più nel periodo di Pasqua. Se ripartirà il contagio nell’isola a ridosso della stagione estiva, il governo potrebbe decidere di riaprire l’Italia e chiudere la Sardegna. Con tanti saluti ai furboni che pensano di poter vivere di turismo.
Che ci sia una possibile fregatura, in questa concessione del governo italico, non è tra le evenienze più improbabili. Diciamo che ad aspettarsi qualcosa di brutto, da oltre Tirreno, di solito ci si azzecca. Timeo Italianos et dona ferentes, ci sarebbe da dire. Stiamo a vedere (ma prudenza sempre, per carità!).
Intanto è cominciata la campagna di controlli sistematici negli approdi portuali e aeroportuali sardi e c’è solo da augurarsi che sarà irrobustita e messa a regime nel più breve tempo possibile. Con l’andazzo problematico delle vaccinazioni e con le nuove varianti del virus, non possiamo dare per scontato che in estate la situazione sarà molto migliore. Non ne va solo del turismo.
In ogni caso, in generale va osservato che la dialettica tra Stato centrale e Regioni si sta delineando sempre più chiaramente come un rapporto gerarchico. La recente decisione della Corte costituzionale a proposito di un ricorso del Governo Conte contro una legge della Val d’Aosta in materia di covid suona abbastanza chiara, anche come segnale.
Tonino Dessì, sulla base della sua conoscenza e della sua esperienza, valuta così la sentenza in un post su Facebook:
La Corte sembrerebbe aver accolto il ricorso governativo sulla base della previsione dell’articolo 117 della Costituzione che attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di profilassi sanitaria internazionale.
[…] A una prima impressione, […] la Corte sembrerebbe aver confermato almeno in parte una linea già affermata in sede cautelare dai Presidenti dei TAR: le Regioni non possono derogare alle misure sanitarie generali stabilite dal Governo.
La Consulta non parrebbe essersi espressamente pronunciata sulla previsione, contenuta nei decreti-legge statali (convertiti ex post in altrettante leggi dal Parlamento), che hanno invariabilmente previsto la competenza dei Presidenti delle Regioni all’adozione di misure più restrittive di quelle previste nei DPCM governativi.
Com’è intuibile, questo tipo di orientamenti della giurisprudenza costituzionale ci riguarda direttamente, dato che la Val d’Aosta è anch’essa una Regione autonoma. Infatti Tonino Dessì prosegue in questi termini:
La questione ha un impatto diretto sulla Sardegna.
Se infatti la dinamica della pandemia continuasse a essere problematica sul territorio peninsulare, ma virtuosa su quello sardo, il Presidente della Regione non potrebbe tuttavia adottare un provvedimento più restrittivo di quelli governativi, perché mancherebbe la condizione giuridica, finora contenuta nelle disposizioni statali, dell’aggravarsi della situazione sanitaria locale.
Ora, bene credo stia dicendo il Presidente Solinas nel riproporre il tema dei controlli certificati all’ingresso in Sardegna e nel contempo nel preannunciare che ogni suo nuovo provvedimento vorrebbe essere concordato col Governo.
Non si può finire di nuovo di fronte a un TAR, su queste cose.
Però bisogna pensarci per tempo e non solo in ordine alle questioni politiche, giuridiche e istituzionali, perché la questione riguarda interessi concreti di tipo economico-sociale.
Occorre cioè attrezzarsi, se proprio non per Pasqua, almeno in vista dell’estate.
Avere un minimo di strategia, su questa come su altre partite, è indispensabile. Non si può agire solo in termini emergenziali e limitandosi alla propaganda, a colpi di annunci, né aspettarsi che la soluzione ai problemi sardi arrivi, come per magia, dall’esterno. Lo Stato centrale ha la sua prospettiva e i suoi interessi da difendere, in base ai rapporti di forza e a seconda di chi dà le carte. In questo momento le carte le dà l’establishment padronale e tecnocratico, con un consenso politico e mediatico pressoché unanime. Situazione particolarmente pericolosa. Per tutti, ma un po’ di più per la Sardegna.
Tonino Dessì conclude:
Il tema che si pone alle autorità italiane è duplice.
Uno sanitario interno.
Sacrificare in nome dell’omogeneità degli “interessi economici nazionali” la tutela sanitaria delle realtà che abbiano raggiunto una condizione pandemica “virtuosa”?
Uno di natura internazionale.
Rischiare di essere spiazzati economicamente dalle contromisure che i grandi operatori del mercato e le attese dei consumatori potrebbero prendere nei confronti di Paesi considerati ancora a rischio?
Insomma, la Sardegna, pur essendo virtuosa e pur mettendo in campo tutte le pratiche e le misure idonee a contenere o addirittura fermare il contagio sul suo territorio, non è detto che sarebbe al riparo da decisioni del governo centrale che ne sacrificassero gli interessi localizzati in nome di “interessi economici nazionali”. Ossia, tradotto: interessi economici della parte egemone del Paese, il Nord-ovest in particolare.
Una questione specifica come la risposta politica alla pandemia, ancorché densa di significati ulteriori, ci mostra la cruda realtà di una condizione storica subalterna e vincolata. Il dato di essere una regione dello Stato italiano e di essere soggetta alle sue leggi e ancor di più agli interessi che lo dominano mette in secondo piano sia gli interessi materiali, sia la salute, sia qualsiasi prospettiva politica realmente autonoma dell’isola.
In barba al fatto di essere una terra che sta per conto suo, oltre le acque internazionali che circondano l’Italia geografica, con caratteristiche geografiche, orografiche e climatiche peculiari, con processi socio-economici e demografici suoi, con necessità strategiche a sé stanti.
Settant’anni fa, Fernand Braudel scriveva, a proposito della Sardegna tra XVI e XVII secolo, ma anche di quella contemporanea:
Montuosa, eccessivamente divisa, prigioniera infine della sua povertà, vive essenzialmente di sé: è un continente, un mondo a sé, con la sua lingua, le sue usanze, le sue economie arcaiche […].
(BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1953, vol. I, pp. 146-7)
Fatti salvi i mutamenti intercorsi da quell’epoca e anche dagli anni in cui Braudel scriveva, cos’è cambiato? Il dato di fatto di una condizione storica specifica e di una posizione geografica irriducibile a qualsiasi altra, agli occhi del grande storico francese, era lampante. Non lo è altrettanto per noi.
Come si vede, non entrano in gioco qui rivendicazioni culturali, asserzioni identitarie, forme di nazionalismo più o meno intense. Non perché non abbiano qualche diritto di esistere, ma perché non ce n’è strettamente bisogno, per giustificare un’aspettativa di autodeterminazione democratica per la Sardegna.
I temi dell’identità e della rivendicazione culturale e linguistica hanno un peso, nella prospettiva dell’autodeterminazione, non come elementi sufficienti né decisivi, bensì come argomentazioni ancillari, a sostegno di una necessità storica che è al contempo di natura materiale e di natura democratica.
Non potrà mai darsi, in Sardegna, una conquista della piena democrazia senza che si ponga, con forza sua propria, la questione dell’autodeterminazione, al di là delle forme giuridiche che essa assumerà. Né è concepibile un percorso di autodeterminazione reale senza che essa sia connessa profondamente con la realizzazione di una democrazia compiuta.
Questo è il nodo da sciogliere e anche l’equivoco da dissipare. Sia riguardo all’ambito politico indipendentista e alle aree di attivismo civile e intellettuale ad esso organiche, sia riguardo all’ambito democratico non indipendentista, ma non vincolato alle succursali podatarie dei partiti italiani e ai loro alleati opportunisti (quale che sia la qualifica che si attribuiscono).
In quale lato del fronte siano da collocare le trovate spettacolari come l’insularità in costituzione o similari, credo sia facilmente intuibile. Tutto ciarpame pesantemente dipendentista, sottilmente anti-democratico, rivolto a consolidare la subalternità dell’isola fino a farne una condizione non più revocabile. Una condizione in cui il ceto politico parassitario sardo e i suoi addentellati sociali e clientelari possono prosperare, a discapito del resto della popolazione e dello stesso futuro dell’isola.
Individuare il nucleo solido della questione sarda, la sua matrice storica più genuina, è indispensabile per poterla affrontare con lucidità e aspettative di successo. Perciò occorre sgomberare il campo dalle false piste, dai diversivi e anche dai numerosi equivoci che troppo spesso deviano e confondono il dibattito politico in Sardegna. L’emergenza pandemica, che minaccia di farsi strutturale e duratura, nella sua drammaticità può aiutarci in questo sforzo di resipiscenza e di comprensione. A patto di essere disposti a fare questo sforzo e a trarne tutte le conseguenze politiche.
Ci torna alla mente la performance artistica del 1980 “Rest Energy”, di Marina Abramović e Ulay: l'”ambito democratico non indipendentista” regge un arco rivolto verso di sé, la freccia dell'”Autonomia” è puntata al proprio cuore; il “ceto politico parassitario sardo con i suoi addentellati sociali e clientelari” tiene tesa la corda dell’arco, pronto a scagliare la freccia. Ognuno è indispensabile all’altro. Un perfetto equilibrio.
Prima o poi verrà al pettine il nodo di cosa voglia dire democrazia in Sardegna. Fin qui non se n’è vista molta, nonostante gli appelli al “voto utile” (a chi?), al “battere le destre”, ecc. Le circostanze sembrano premere perché comincino a cadere ipocrisie, opportunismi e illusioni varie. Però magari bisogna sfruttarle meglio, le circostanze. Vedremo. Intanto, meglio precisare i termini delle questioni. Deve essere chiaro chi sta dove e con chi.