È possibile che da qui a qualche tempo emergano le potenti contraddizioni e le manipolazioni su vasta scala che hanno accompagnato l’epidemia di covid-19.
Sui dati e sui numeri “ufficiali” è quasi impossibile imbastire oggi ragionamenti definitivi, se non assumendo uno sguardo critico e il più possibile lucido sugli aspetti non strettamente epidemiologici. In quest’ultimo ambito, ciò che si può dire, alla luce delle poche cose che possiamo considerare ragionevolmente certe, è che molte scelte del governo italiano e delle amministrazioni locali siano state incoerenti, spesso del tutto ingiustificate e con tutta probabilità inutili o addirittura dannose.
Dannose sicuramente per il tessuto sociale e relazionale, per quello culturale, per la fascia anagrafica che va dall’infanzia alla prima età adulta, per gli anziani, per i malati, in generale per le donne più che per gli uomini (benché il contagio femminile risulti molto inferiore rispetto a quello maschile). Insomma, chi ha subito le conseguenze peggiori dalle misure anti-epidemia sono per lo più quelle “fasce deboli” che in linea teorica si volevano tutelare.
Alcuni errori di fondo sono legati agli interessi che le scelte politiche hanno privilegiato. Dietro la retorica dell”insieme ce la faremo”, dell'”io resto a casa” e dell'”andrà tutto bene”, si sono nascoste robuste protezioni per alcuni settori sociali e per alcune aree dello stato italiano, a discapito degli altri.
L’impressione è che si sia trattato di una enorme messa in scena, di un grandioso esperimento con tratti marcati di fiction, destinata a giustificare gravissime violazioni delle garanzie costituzionali vigenti e dei diritti civili e umani della popolazione.
Naturalmente, il tutto dentro una logica eminentemente estrattiva, il più possibile favorevole a meccanismi di appropriazione di valore e di subordinazione a tale logica del lavoro, delle necessità vitali e delle relazioni “gratuite” tra persone.
Parlo di messa in scena, perché, come evidenziato nelle riflessioni meno conformiste e politicamente cedevoli, la componente della rappresentazione ha avuto un peso enorme.
Gran dispiegamento di mezzi per alimentare uno spettacolo a reti unificate, che doveva obnubilare le coscienze, spostare l’attenzione delle masse su capri espiatori di comodo, inibire il senso critico e la capacità di dissenso: inseguimenti di podisti solitari con i droni (in diretta tv), elicotteri a caccia di passeggiatori per spiagge e boschi, persecuzione sistematica e repressione autoritaria di comportamenti tutt’altro che pericolosi o anche solo contrari alle stesse disposizioni emanate.
Al clima intimidatorio, accresciuto dall’arbitrio lasciato alle forze dell’ordine nell’interpretare le restrizioni, si è sommata la paranoia generata nei cittadini tramite ben dosate iniezioni di paura, diffusa dai mass media mainstream e rilanciata dai social, con l’assenso e anzi la partecipazione attiva di una buona fetta dell’intellighenzia italica, del mondo dello spettacolo, delle nuove star scientifiche.
Tutto questo non è ancora finito e la reiterazione del cosiddetto “stato di emergenza” (di cui non trovo traccia nella costituzione italiana, almeno nei termini in cui è stato usato), approvata dal governo, col Decreto “Rilancio”, per altri sei mesi, non fa che rinforzare il senso di timore per una piega degli avvenimenti non certo inaspettata ma non per questo meno inquietante.
Tanto più inquietante se applicata alla situazione della Sardegna.
Nell’isola scontiamo una condizione contraddittoria. Da un lato sembra che l’epidemia sostanzialmente non ci sia stata, specie se ai numeri ufficiali si sottrae l’impatto della covid-19 sulle strutture sanitarie e sulle RSA. Al netto dei contagi in questi ambienti votati alla cura (!), il virus pare non aver avuto tanto successo, in Sardegna.
Purtroppo i numeri ufficiali dicono poco. Non essendo stati fatti controlli diffusi, nemmeno a campione, ci si deve basare su dati parziali, su indizi, su processi induttivi e deduttivi.
Fatte queste doverose premesse, resta l’impressione che l’isola se la stia cavando davvero a buon mercato, almeno sul fronte strettamente sanitario. Non uno scampato pericolo da poco, data la deficitaria condizione del sistema sanitario locale, ridimensionato negli anni secondo logiche privatistiche che nulla hanno a che fare con la protezione della salute dei cittadini, nonché totalmente avulse da demografia, orografia, sistema dei trasporti, situazione sociale dell’isola.
Va detto che i cittadini hanno dimostrato, nel corso di queste settimane, una disciplina e uno spirito di adattamento e sacrificio davvero encomiabili, a dispetto delle narrazioni colpevolizzanti che sono andate per la maggiore. Spero che non sia solo un effetto della rassegnazione.
Infatti, se sul versante sanitario le cose non sono andate malissimo, non si può dire la stessa cosa per il resto della vita associata dell’isola. Isolamento domestico, chiusura delle scuole, blocco di molte attività economiche costituiscono un gravame enorme, il cui prezzo è e sarà salatissimo, su diversi piani.
Il problema è che il peggio con tutta probabilità non solo non è ancora passato ma potrebbe ancora arrivare.
In queste settimane non sono mancate le critiche alla gestione emergenziale della giunta Solinas. Tuttavia, l’influenza che un’opinione pubblica largamente anestetizzata dalla narrazione mediatica egemonica può esercitare sulla politica, in Sardegna, è davvero limitata.
La classe politica sarda ha ampia libertà di manovra, sapendo bene a chi deve la propria sopravvivenza e le proprie possibilità di carriera. Non illudiamoci che trasformare Solinas in un’icona da meme satirico e persino le obiezioni più strutturate e ponderate abbiano alcun effetto sulle scelte sue e della compagine che lo sostiene.
Le decisioni o, più spesso, le mancate decisioni del governo regionale sono dovute a valutazioni per lo più non dichiarate e rispondono a interessi opachi e dinamiche di potere che non si dispiegano sotto la luce dei riflettori, tranne che per qualche loro esito impossibile da nascondere o camuffare, e solo in alcuni momenti.
Tutta la partita della sanità, compresa la grande truffa del Mater Olbia, era già difficile da rendere invisibile prima dell’epidemia. La covid-19 ha rischiato di far saltare tutte le coperture retoriche e tutte le mimetizzazioni studiate per portare a compimento l’operazione. E tuttavia la partita è tutt’ora in corso e non credo che sarà interrotta e forse nemmeno rallentata.
Non si parla affatto di una riorganizzazione dei servizi sanitari in nome e per conto della salute dei cittadini, sulla base delle criticità emerse in questi mesi di emergenza. Tanto meno se ne parlerà più avanti. Non bisogna distrarsi, su questo fronte.
L’indebolimento del già fragile tessuto produttivo sardo non sarà un cattivo affare per chi ha mire monopolistiche e capacità di catalizzazione di risorse pubbliche. Esiste il serio rischio che i vari settori in cui esisteva un minimo di vitalità economica siano o spazzati via o riassorbiti dentro logiche di subalternità e di dipendenza da interessi consolidati esterni all’isola.
Il dibattito sui cambiamenti climatici e più in generale sui problemi ambientali è stato quasi completamente oscurato, ma le questioni restano aperte. Il fatto che non se ne parli più è un pessimo segnale. Significa che le mire di chi lucra sul disastro non sono certo venute meno e anzi potrebbero trovare nuova linfa in questa situazione emergenziale.
Della questione energetica non si parla più, ma anch’essa resta sul tappeto, con tutta la sua problematicità, legata a filo doppio con i problemi ambientali. Ma in Sardegna certi temi sono tabù. Non si muove foglia che la SARAS non voglia. L’impressione è che il piano di ridurre la Sardegna a un grande hub energetico di tipo brutalmente estrattivo e coloniale sia tutt’altro che venuto meno.
Non c’è comparto economico, in Sardegna, che non rischi di essere definitivamente devastato, compresi il commercio e il turismo. Ma non è detto che accada a danno di tutti. I grossi operatori, che godono di un notevole potere di intermediazione, se non di ricatto, verso la politica, confidano certamente di trarre vantaggio dalla situazione.
Lo vediamo – o lo intuiamo – nella questione del turismo balneare. È evidente che ci sia un tentativo in corso di privatizzare gli arenili e i tratti di costa ancora liberi da concessioni private, con la scusa delle misure di contenimento del contagio. Le proteste sono state immediate, al primo sentore di questa manovra, ma non è detto che non vengano aggirate in qualche modo fantasioso.
In più, come al solito, in Sardegna rischiamo di subire passivamente prescrizioni concepite altrove per situazioni, sia ambientali sia demografiche, significativamente diverse dalle nostre. Senza che sia messa in campo alcuna risposta compiuta e sensata da parte della nostra politica.
Il sogno elitario e bassamente estrattivo di un turismo balneare in Sardegna senza l’ingombro dei sardi (dei sardi sotto un certo livello di reddito, soprattutto) rischia di diventare realtà. I grandi gruppi alberghieri ci stanno già lavorando. E alcuni comuni costieri sono ben sintonizzati su quella lunghezza d’onda (la preoccupazione è “mettere in sicurezza i turisti”, mica chi ci vive).
Occorrerebbe non solo la protesta, specie se di indole corporativa, ma anche un’idea di soluzione, magari in termini realmente innovativi e, una volta tanto, democratici.
Su questo piano, per restare in tema turistico-balneare, condivido volentieri una proposta in merito di Tonino Dessì. Molto in sintesi, una riappropriazione pubblica delle spiagge, nella logica dei beni comuni (per i dettagli si veda l’articolo linkato):
- tutti gli stabilimenti balneari esistenti, almeno per due o tre stagioni, messi (dietro indennizzo) al servizio della balneazione pubblica e gestiti mediante regolamenti comunali che assicurino l’accesso a prezzo sociale, mediante tariffe stabilite dai Comuni;
- organizzazione pubblica anche della parte restante, “libera”, degli arenili, sempre mediante gli appositi regolamenti.
In generale, riguardo ai servizi turistici, il quadro è in ogni caso desolante. Pur non annettendo al comparto turistico alcuna funzione salvifica – e anzi restando su una posizione molto critica sul suo ruolo e sul suo futuro – non posso esimermi dal rimarcare il dilettantismo e il pressapochismo con cui la politica istituzionale continua ad affrontare la questione (qui qualche ragionamento sensato in proposito).
Se togliamo il favore per i grandi centri di interesse privato, a volte di natura smaccatamente colonialista, oltre alle misure pasticciate e quasi solo propagandistiche (ma potenzialmente dannose), resta ben poco.
L’attenzione sul turismo è naturalmente alta, data la stagione estiva incombente. Ma il focus della riflessione deve essere più ampio. Non si tratta solo di preservare il libero accesso al mare, ma di inquadrare anche questo problema e in generale il rapporto della Sardegna col turismo, dentro una cornice teoricamente e politicamente diversa.
Il tema della ri-pubblicizzazione di beni e servizi che integrino il libero esercizio di diritti civili e configurino elementi essenziali nella qualità della vita dei cittadini deve essere posto con forza e rilanciato tramite un’ulteriore riflessione collettiva.
Naturalmente, ciò contrasta con la consolidata prassi dei finanziamenti assistenziali e clientelari, magari gestiti dalle solite centrali sindacali e di categoria e il tutto rivolto a perpetuare condizioni di subalternità e inerzia.
Pensiamo ai problemi del comparto zootecnico, e di quello ovino in particolare, usciti dalle cronache ma tutt’altro che risolti, a dispetto delle mirabolanti promesse degli ennesimi venditori di perline colorate venuti da oltremare e dei loro fiduciari coloniali nell’isola.
E contrasta anche con la perdurante passività della politica sarda verso la condizione di brutale sfruttamento riservato all’isola dalle autorità italiane, in nome e per conto di consolidati interessi internazionali. In primis, nella questione dell’occupazione militare.
In Sardegna avremmo la possibilità di far valere in termini progressivi ed emancipativi la nostra peculiare condizione, persino nelle deficitarie condizioni giuridico-politiche garantite dallo statuto vigente.
Anche riguardo alla gestione dell’emergenza da covid-19 sarebbe stato indispensabile avere una nostra visione del problema e una nostra prospettiva per affrontarlo, e non solo un continuo calcolo delle convenienze di parte e l’ossessione tattica per i rapporti di forza contingenti.
Se solo pensiamo alla questione della scuola, per toccare un altro tema fondamentale, c’è da essere terrorizzati. Anche qui, passività, inconcludenza, disinteresse.
Disinteresse verso la scuola che fa il paio con quello verso l’ambito culturale, completamente lasciato allo sbaraglio e del tutto assente non solo dalle preoccupazioni della politica, ma anche dalla sua retorica auto-promozionale. Chiedersi il perché suona come una domanda retorica.
Non possiamo aspettarci nulla dalla politica istituzionale, che sia della maggioranza o dell’opposizione poco cambia (sono stanco di ripeterlo, ma è la cruda realtà).
Tuttavia la politica non si fa solo dentro il Palazzo. Anzi, in Sardegna la politica, ormai, si fa quasi esclusivamente fuori dalle stanze del potere costituito, benché sia poi lì che si prendono le decisioni.
Discutere, proporre soluzioni, condividerle, raccogliere su quelle più solide un ampio consenso e farle diventare istanze collettive con un peso sociale e democratico non ignorabile deve essere un modo di fare costitutivo della necessaria alternativa politica all’apparato clientelar-coloniale ancora dominante. Magari provando a sperimentare qualcosa nelle realtà concrete delle nostre comunità.
In questo senso mi colpisce la notevole consonanza circa la complessa questione del reddito di base universale, manifestatasi a più riprese nel giro di pochi giorni e senza alcuna premeditazione.
Ne ho trattato qui su SardegnaMondo, ma il tema è stato rilanciato anche in altri spazi e da altri, in particolare sul manifesto sardo (qui e qui). E mi pare che il tema stia entrando nell’agenda di un fronte ancora più ampio.
Al di là del tema specifico, è un approccio che mi pare promettente.
Intanto che celebriamo riti apotropaici per scongiurare l’ennesima piaga biblica e vigiliamo perché la Sardegna non debba pagare un prezzo ancora maggiore alla prepotenza e all’egoismo delle classi dirigenti dei territori italiani più privilegiati, è il caso di proseguire con le riflessioni, il dibattito e le proposte, in attesa che possano tradursi in mobilitazione democratica. Al di là dell’emergenza covid-19.
Mi chiedo se tutto ciò sia serio.
Te la sei giocata male, Vittorio. Hai esaurito il bonus.
Non violi solo la netiquette di questo sito, ma anche le regole basilari della buona educazione.
Lascio il tuo commento, a titolo di prova.
Sarà l’ultimo.