Esiste un uso politico della storia e spesso si è tentati di farne uno a nostro vantaggio, magari per contrastare quello che ci sembra faccia la controparte (vera o ipotetica che sia).
Ma cosa significa “uso politico della storia”, chi è che se ne serve e, soprattutto, è giusto? Che senso ha?
Da qualche tempo vedo rimbalzare tra un profilo e l’altro di Facebook il cartello che ho messo qua sopra.
Il senso di questo elenco sinottico di date è – suppongo – sostenere una maggiore e più precoce nobiltà della Sardegna rispetto all’Italia, in ambito giuridico e politico.
Ora, posto che uno scopo del genere abbia senso (e dico subito che per me non ne ha nessuno), qua bisogna fare i conti con almeno due livelli di scorrettezza.
Il primo livello è di metodo. Non puoi paragonare pere con carbone, o dinosauri con pentole.
Non tenere conto dei diversi processi storici intervenuti nel corso dei secoli è palesemente una sciocchezza.
Non tenere conto delle differenze di contesto, è un’altra sciocchezza.
Non tenere conto della diversità radicale degli stessi termini applicati a realtà storiche diverse e distanti è la sciocchezza ulteriore che ne discende.
A questo primo livello possiamo segnalare, a titolo di esempio, l’equivoco fondamentale sulla parola “parlamento”.
I parlamenti di tradizione iberica e in generale di epoca medievale non hanno nulla a che fare con i parlamenti dello stato-nazione odierno.
Il preteso primo parlamento sardo del 1355 (ed anche qui… parliamone) era un raduno di feudatari, di alti ecclesiastici e di rappresentanti delle città non infeudate.
Non rappresentava il popolo, non aveva una funzione legislativa, né – tanto meno – una funzione di bilanciamento e controllo degli organi di governo (ossia, le funzioni proprie dei parlamenti contemporanei).
Si trattava invece di un’entità assembleare tipica del medioevo e, con adattamenti e peculiarità mutevoli, di tutto l’Antico Regime, che sarà spazzata via pressoché ovunque – insieme a molte altre cose – dalla Rivoluzione francese.
Paragonare il “parlamento” convocato da Pietro IV il cerimonioso a Castel di Callari (Cagliari) nel 1355 con il primo parlamento dello stato italiano unificato (che però si era già riunito come parlamento del Regno di Sardegna, ricordiamocelo più avanti) non ha alcun senso.
Sono epoche diverse e distanti, sono organismi diversi e distanti.
Allo stesso modo, attribuire lo status di “costituzione” alla Carta de Logu arborense (perché a questo si allude, benché in modo criptico, con la data del 1421) è sbagliato.
È sbagliato due volte e poi vedremo il secondo motivo. Qui mi limito a chiarire che la Carta de Logu de Arbaree non era una costituzione.
Non lo era in senso proprio, perché era una raccolta di leggi e normative di carattere civile, penale, procedurale e amministrativo e non la “norma fondamentale” di un ordinamento giuridico statuale su di essa basato.
Non lo era in senso storico, perché a quel tempo non esisteva nemmeno l’idea (se non vagamente, nel pensiero di qualche filosofo singolarmente visionario) il concetto di “costituzione” come lo concepiamo noi oggi (a partire dal Settecento illuminista).
Certo, in senso lato i giudicati sardi – in quanto ordinamento giuridico sovrano – avevano una loro “costituzione”, sia pure implicita, informale o de facto (come il regno Unito attuale, per capirci, che non ha una costituzione scritta). Ma questa non coincideva necessariamente e in termini esclusivi con le previsioni della Carta de Logu.
Istituire poi il confronto tra un non meglio precisato “stato sardo” e lo stato italiano è del tutto fuorviante.
Qui mi limito a segnalare l’incongruenza cronologica, ossia il fatto che si tratti di entità giuridiche non contemporanee, dunque non paragonabili.
La forma-stato, come la conosciamo noi, è un’istituzione estremamente recente, nella parabola storica umana.
Sicuramente non ha alcun significato, e spero che sia evidente perché, confrontare ordinamenti medievali con ordinamenti moderni e ancor meno con ordinamenti contemporanei.
Insomma, su questo versante già gli anacronismi evidenti e il paragone tra realtà ed elementi differenti destituiscono di qualsiasi credibilità la ricostruzione proposta.
L’altro livello di criticità riguarda il merito.
Anche qui, c’è da scegliere, purtroppo.
Cominciamo da una petizione di principio di natura preliminare.
Di cosa stiamo parlando in questo caso? Perché è già da chiarire questo.
A me pare – perché lo so, ma non è detto che lo sappiano tutti coloro che vedono quest’immagine – che si parli del Regno di Sardegna più che della Sardegna in quanto tale.
Solo in quest’ottica – parziale e arbitraria – ha senso assumere come elementi identificativi: la bandiera dei quattro mori, i parlamenti di stampo aragonese e quelle date lì anziché altre.
L’emblema delle quattro teste di moro diademate, nel 1281, non era una bandiera sarda. Probabilmente non era una bandiera affatto. Era un simbolo scelto da Pietro III d’Aragona per celebrare la sua vittoria contro i Mori.
Solo successivamente, e per vicissitudini mai chiarite completamente, la ritroviamo più avanti come stendardo aragonese in Sardegna e poi, ancora più tardi, stemma del braccio “militare” (ossia dei feudatari) del parlamento del Regno di Sardegna, ormai spagnolo.
Da lì comparve poi spesso come stemma del Regno di Sardegna in quanto tale. Nello scudo in cui comparivano tutti gli stemmi dei Savoia, una volta divenuti re di Sardegna (dal 1720), al centro c’era appunto quello con i quattro mori.
Paragonarlo con il tricolore italiano (risalente alla fine del XVIII secolo) non ha senso. Prima di tutto perché fino al 1861 non esisteva l’Italia come entità statale.
Inoltre, se proprio vogliamo fare i pignoli, i due emblemi (ma potremmo anche dire i due stati che si pretende di confrontare) non sono affatto in contrasto.
Quando il Regno di Sardegna, dopo aver esteso i suoi confini con le guerre risorgimentali ed aver radicalmente mutato assetto giuridico (fin dalla Fusione perfetta e a maggior ragione dopo), diventa a tutti gli effetti Regno d’Italia, la bandiera del tricolore sostituisce quella dei quattro mori.
C’è un rapporto di successione, in un certo senso, non di alternativa/opposizione.
Stesso problema per quanto riguarda la pretesa “unificazione”.
Di quale unificazione stiamo parlando?
Ovviamente, se si prende come riferimento la data del 1420, stiamo parlando dell’unificazione del Regno di Sardegna aragonese.
In quella data, infatti, Guglielmo di Narbona, ultimo sovrano di Arborea, vende i propri diritti al re d’Aragona.
L’anno successivo (1421) viene così celebrato il primo vero “parlamento” del Regno di Sardegna (quello del 1355 non viene ormai considerato significativo da nessuno storico, date le circostanze precarie in cui fu convocato).
A quella data si fa riferimento circa la pretesa adozione della “costituzione” in Sardegna. Ma, come visto, stiamo parlando della Carta de Logu arborense.
Che esisteva già da decenni ed era stata in vigore (praticamente) in tutta l’isola già sotto Mariano IV, Ugone III e poi Eleonora.
Vero è che nel 1421, nonostante la sconfitta e la scomparsa del giudicato d’Arborea, Alfonso il Magnanimo, re d’Aragona e di Sardegna, la mantenne in vigore, in considerazione della sua alta qualità giuridica e del fatto che da tempo era considerata la legge di tutti i sardi.
Affibbiare poi la data del 1861 alla prima costituzione italiana, in un confronto come detto improponibile con la data del 1421, è un errore doppio, se non triplo.
Basterebbe aprire un manuale scolastico per scoprire che la costituzione italiana del 1861 non era alto che… lo Statuto “albertino” del 1848, prima costituzione – in questo caso sì – del Regno di Sardegna (ereditata poi dallo stato italiano unificato sotto i Savoia).
Fin qui, le obiezioni specifiche.
Ce ne sarebbe anche una più generale. Cioè: siamo sicuri che giochi a favore di un riscatto della dignità storica della Sardegna presentare come significative le date che segnano i passaggi del dominio aragonese sull’isola?
Non so voi, ma per quanto mi riguarda questa cosa suona vagamente disturbante.
Farebbe piacere probabilmente al professor Francesco Cesare Casula (teorico della continuità storica e giuridica tra Sardegna medievale e stato italiano contemporaneo). Ma a me – abbiate pazienza – sa di forzatura senza senso.
Tuttavia il quesito che domina tutta la faccenda non è nemmeno di questo tenore.
Al di là degli strafalcioni di tipo storico e giuridico, bisognerebbe prima di tutto porsi il problema della legittimità di un uso così strumentale della storia.
Non vale l’obiezione che la storia sarda è stata da tempo piegata in modo tendenzioso a letture politiche di tipo subalterno, per giustificare gli assetti politici contemporanei.
Può essere vero. Anzi, a giudicare da come viene raccontata la storia sarda in ambito italiano (specie a scuola o nella divulgazione mainstream), è vero senz’altro.
Ma è una buona ragione per fare lo stesso, o anche peggio, semplicemente cambiando verso alla falsificazione?
Siamo sicuri di rendere un buon servizio alla storia sarda e alla sensibilità politica dei sardi, cimentandoci in queste prove?
Siamo davvero convinti che assemblando alla bell’e meglio ricostruzioni storiche pasticciate e tendenziose ne emerga, come per magia, una coscienza politica più solida e votata all’emancipazione collettiva?
Io personalmente non ne sono affatto convinto.
Anzi, trovo pericolosamente diseducativo e politicamente rischioso un uso così disinibito della storia.
Ho sempre contestato il revival nuragico e la mitopoiesi nazionalista spacciati per riscoperta delle nostre glorie antiche (vere o ipotetiche). Non posso fare diversamente per un tentativo semplicemente spostato più in avanti nel tempo ed anche in modo decisamente maldestro.
Abbiamo davvero bisogno di miti delle origini e di una narrazione edulcorata del nostro passato?
Perché, se è così, potremmo anche rispolverare le Carte di Arborea, senza dovercene inventare delle altre.
A cosa servono queste “invenzioni della tradizione” (o “della storia”, più propriamente, in questo caso)?
Io ho idea – e ho il timore – che servano a fabbricare dispositivi molto poco liberanti e democratici e invece possano essere molto utili a costruire percorsi reazionari, xenofobi, di chiusura culturale, politica e sociale.
Non è di questo che ha bisogno il processo di autodeterminazione sardo. Non è di questo che hanno bisogno i sardi!
Perciò, attenzione a non farci prendere la mano. Non voglio accusare nessuno di mala fede. Non so nemmeno chi sia l’autore/trice (o gli/le autori/trici) di questo pastrocchio. Ma vedo che sta avendo un certo successo.
Ribadisco: è un mucchio di sciocchezze miste ad errori pacchiani. E, oltre a questo, è un attrezzo scorretto e pericoloso, per giunta controproducente per chiunque lo usi.
Riflettiamoci su e magari prendiamo in mano qualche libro di storia. Ce ne sono tanti e di validissimi. Vinciamo la pigrizia e studiamo di più, senza aspettare la pappa pronta sui social media. Possiamo farcela.