L’autodeterminazione come risposta necessaria alla crisi globale

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Dai problemi globali dell’attuale fase di transizione storica, al processo di autodeterminazione della Sardegna, senza “passare dal Via”.

Per farsi un’idea strutturata – non dico esaustiva – di quel che succede in questa delicata fase di transizione storica non basta seguire le cronache quotidiane dei mass media. Nemmeno quelle dei mass media più seri e indipendenti.

I profili di problematicità dei processi in corso sono così tanti e così intrecciati che è virtualmente impossibile tenerli tutti insieme sotto un unico sguardo, perciò anche l’analisi più articolata e complessa si perde qualcosa.

Al più possiamo provare a elencare, a titolo esemplificativo, senza pretese di completezza, i temi più spinosi che l’attuale frangente storico ci propone.

Degli sconquassi climatici, dell’inquinamento e dell’esaurimento della biosfera e delle risorse naturali se ne parla a sufficienza, ma sembrano ancora questioni astratte e lontane dalla quotidianità. Salvo quando qualche effetto di tali processi non ci investe direttamente.

La conflittualità aperta, sia a livello internazionale sia a livello locale, è abbastanza visibile, anche se non percepita con tutta la sua violenza e la sua distruttività.

Nessuno pensa che la prossima guerra possa riguardare noi. E forse, in Europa, entro certi limiti, è grosso modo ragionevole.

Si possono però percepire alcuni effetti dei conflitti aperti o latenti. Per esempio nella questione delle migrazioni di massa.

Queste ultime sono un esito di vari problemi che si sovrappongono, alimentandosi a vicenda.

Il primo dei quali è l’estrazione rapace di risorse, causa di scontri sociali ed etnici, di guerre guerreggiate e guerriglie varie, di carestie e povertà. In ultima analisi, anche degli scompensi climatici.

Immaginare di affrontare la questione globale delle migrazioni di massa spegnendo il wi-fi comunale in una piazza di Cagliari è una mossa di così palese inadeguatezza e di così enorme cinismo politico, da lasciare semplicemente basiti.

Eppure è successo e lo ha deciso un sindaco presentato universalmente, specie in ambito italiano, come simbolo del buon governo di “sinistra”. Uno dei nomi forti della politica sarda attuale.

La distanza tra la dimensione storica dei processi e dei loro effetti e la risposta della politica è ben rappresentata da questo episodio, pure di suo del tutto marginale. Ma andiamo oltre.

Uno dei grandi sconquassi in corso è il conflitto per l’egemonia economica e politica del pianeta.

Attualmente ne vediamo alcuni aspetti nella guerra commerciale degli USA contro la Cina da un lato e l’Unione Europea (leggi, la Germania e la Francia, soprattutto) dall’altro.

Conflitto dentro il quale ovviamente se ne annidano altri (come quelli tra le varie economie europee, tutt’altro che armonizzate e tanto meno unificate), o l’enorme e irrisolto conflitto finanziario-bancario, correlato con la questione spinosa dei debiti pubblici degli stati.

Non sono problemi teorici, anche se i numeri in cui vengono espressi sono così grandi da suonare astratti. Sono tutte faccende molto, molto concrete.

Naturalmente le classi dominanti, anche nei paesi considerati democratici e liberali, si sono da tempo attrezzate per rispondere a questa imponente ondata storica.

Loro la lotta di classe non l’hanno mai dismessa. E la stanno vincendo.

L’accaparramento bulimico di risorse e la riduzione degli spazi di democrazia economica e sociale, la sconfitta ormai quasi compiuta di qualsiasi istanza politica alternativa al completo dominio del capitale e dei padroni (col loro seguito di servitori, podatari, saltimbanchi), l’impoverimento sistematico di fette sempre più ampie di popolazione (anche nei paesi “ricchi”) sono fenomeni in corso.

Il fatto stesso che i due poli politici egemoni siano da una parte la tecnocrazia elitaria, autoritaria, razzista e anti-popolare e dall’altra i revanscismi nazionalisti, xenofobi e fascisti ci dice come siamo messi in Europa (ma non solo).

Qual è il succo di questa premessa?

Il succo è che discutere di politica, oggi, senza porsi tutti questi problemi, è un puro esercizio retorico.

Vale anche per la politica sarda.

Siamo ormai in fase pre-elettorale, come sappiamo. Le manovre sono già cominciate e qualche anticipazione dei colpi di teatro prossimi venturi l’abbiamo già avuta, come dimostra l’episodio di Cagliari richiamato più sopra.

Tuttavia, mi pare che si tratti pur sempre della solita rappresentazione, trita e ritrita, messa in scena sul piccolo palcoscenico scalcagnato di un teatrino di provincia.

Partiti italiani, un tempo largamente egemoni e oggi in crisi, che cercano di mantenere il proprio potere di delegati coloniali.

Nuove forze di finta innovazione, ma sempre inserite nell’ambito politico e di interessi italiano, che sgomitano per sostituirsi ai primi.

Politicanti locali di lungo corso che sperano di trovare la ricetta vincente per conservare il proprio ruolo, magari spacciandosi per il nuovo che avanza (un po’ come gli avanzi di un pasto cattivo, diciamo, in quel senso lì).

Naturalmente c’è anche – e meno fragile e disorganico di quanto si pensi – un profondo processo di recupero di responsabilità collettiva e di aspirazione all’autodeterminazione.

C’è, si vede anche, ma non è percepito in tutta la sua consistenza. Nemmeno dagli attori in campo, probabilmente.

Ovviamente ci sono le solite manovre di disturbo e i vari tentativi di inquinamento delle dinamiche democratiche. Ne stiamo già vedendo qualcuna e temo che aumenteranno di intensità nei prossimi mesi.

A questo proposito, avevo auspicato una benefica crisi di coscienza degli organi di informazione principali, ma i segnali fin qui sono contraddittori, se non un filino demoralizzanti. Vedremo cosa succederà.

Il problema generale che vorrei porre, tuttavia, riguarda proprio l’assenza, nel dibattito pubblico sardo, dei grandi temi storici summenzionati.

Eppure, proprio in Sardegna, avvertiamo in modo acuto molti di essi, se non tutti.

Capisco che i vari capibastone e i padroncini dei vari pacchetti di voti clientelari debbano occuparsi prioritariamente – e se possibile unicamente – di una loro collocazione favorevole dentro le dinamiche di potere in corso.

Da loro non mi aspetto altro.

Vale anche per quelli tra loro che indossano panni indipendentisti o autonomisti e anche sovranisti, per non farci mancare nulla.

Ma spero che sia ormai chiaro come si valuta l’operato politico di qualcuno: cosa fai? come lo fai? che grado di coerenza esiste tra le tue parole e le tue azioni? da quanto tempo sei in politica? quali sono stati i tuoi conseguimenti?

Dato che in Sardegna ci si conosce tutti ed è difficile mentire a tutti per sempre, confido che i furboni del trasformismo e dell’opportunismo abbiano perso un bel po’ del loro credito, a questo punto.

Ma anche sugli altri fronti vedo un po’ di titubanza ad accettare il fatto che tutti i vari processi storici in corso ci riguardino fin nella vita quotidiana delle nostre comunità.

Se chi deve conservare il suo miserrimo potere da valvassino, o da kapo, ha una giustificazione pratica (benché disgustosa) per il suo basso profilo politico, mi aspetterei qualcosa di più da chi lotta per un’emancipazione collettiva, da chi vuole mutare la sorte precaria della Sardegna.

Bisogna avere il coraggio di mettere sul piatto le questioni grandi e complesse che comunque ci toccano e ci toccheranno. Bisogna studiarle, affidandoci alle intelligenze migliori di cui disponiamo, anche fuori dall’isola, e bisogna ipotizzare forme e contenuti di una risposta politica seria, responsabile e lungimirante.

Penso alla questione energetica, penso alla questione dei flussi migratori, penso alla questione dei trasporti, penso alla questione della produzione agro-alimentare e all’economia nel suo complesso.

Penso ai problemi finanziari e fiscali, penso alla deriva delle agenzie formative e al gravissimo problema dell’ignoranza di nuovo crescente, penso all’impoverimento e all’invecchiamento della popolazione.

Penso al governo dei beni comuni (acqua, suolo, risorse strategiche, beni culturali, salubrità dell’ambiente, ecc.)

Penso anche ai rapporti con l’Europa (nel senso di continente e nel senso di UE).

E penso naturalmente allo storico problema dei rapporti con lo stato italiano.

Ho come la sensazione – e non da oggi – che ci stiamo avvicinando a un momento in cui la prospettiva dell’autodeterminazione non sarà più l’auspicio di qualche romantico né un’aspirazione puramente nazionalista, o identitaria, ma un’esigenza storica dettata da dinamiche esterne, fuori dal nostro controllo.

Gli sconquassi internazionali, il livello di conflittualità ormai sostanzialmente pre-bellico, anche in Europa, non dovrebbero lasciarci tranquilli, a pensare alle scempiaggini tipo “convergenze nazionali” o “primarie nazionali” e altri diversivi per allocchi.

Tanto meno dovrebbero lasciarci coltivare ognuno le proprie ossessioni e i propri interessi settoriali.

Che risposta potremmo dare, domani mattina, a una crisi decisiva degli assetti europei, a un default di stato dell’Italia con annesso isolamento internazionale, a una crisi energetica su scala continentale, a un’interruzione dei trasporti esterni, o a una guerra commerciale generalizzata?

Sono tutte situazioni possibili, se non probabili, dei prossimi anni o addirittura mesi, in cui noi, in questo momento, come in altri del passato, saremmo solo vittime sacrificali senza voce in capitolo?

In questa fase saranno necessarie la chiarezza e l’intransigenza politica, da un lato, ma anche la conoscenza, l’analisi puntuale e una prospettiva d’azione dall’altro.

Non sto parlando, come spero sia ovvio, di questioni elettorali. Le elezioni non esauriscono mai la sfera politica di una collettività. Tanto meno in momenti come questo.

Anche le prossime elezioni sarde saranno solo un passaggio contingente. Si possono affrontare come la conquista dell’ultima oasi, a discapito di tutti gli altri (ed è quello che faranno i reduci dei partiti coloniali – PD, FI, LEGA e satelliti vari – e lo stesso M5s), oppure come momento tattico di appropriazione dello scenario politico (o di una sua quota).

Ma le questioni strutturali restano sul piatto e chi persegue l’emancipazione collettiva dei sardi e la loro autodeterminazione democratica dovrebbe affrontare la tornata elettorale soprattutto in altri termini.

Intanto, non facendone una questione di vita o di morte. Poi cercando di coagulare il più possibile intorno a temi condivisi il già esistente fronte democratico.

Un fronte popolare, anti-fascista, sensibile ai temi ambientali e sociali, votato a una appropriazione virtuosa dell’autogoverno dell’isola.

Chiaramente, accettando di agire, per adesso, dentro il quadro giuridico e politico vigente.

Ma in particolare – come vado dicendo da tempo – curerei particolarmente l’amministrazione delle nostre tante comunità locali, ossia i luoghi dove vivono i sardi. Tutte, quelle grandi e quelle piccole.

Non per concentrarsi sulle questioni locali, ma per inserirle dentro un quadro complessivo di rinnovamento radicale e di assunzione generalizzata di responsabilità.

Ed anche, in parallelo, per formare sul campo una classe dirigente diffusa e rappresentativa di tutte le realtà dell’isola.

Non si otterrà nulla di nulla dalla sola partecipazione alle elezioni per la Regione, magari una tantum. Persino in caso di successo. Non senza entrare in una modalità di lotta politica radicale e strutturale, per tanti versi rivoluzionaria.

Bisogna entrare in quest’ottica, soprattutto per essere preparati, se faremo in tempo, ad affrontare la resa dei conti storica di là da venire.

So che un’idea del genere suona un po’ millenarista, ma onestamente nella passività e nel piccolo cabotaggio elettoralistico io vedo solo pericoli, a fronte delle sfide che questa dura epoca di transizione ci propone.

Le cose da fare, anche subito, sono diverse. Qui ne posso giusto ipotizzare alcune, senza alcuna pretesa di dettare la linea né di esaurire il campo delle possibilità.

Una sarebbe l’istituzione di una sorta di “comitato di salvezza nazionale”, elettivo ma permanente, in cui poter coordinare gli sforzi di tutte le realtà in lotta, affinché ci sia un collegamento e dove possibile un sostegno reciproco, fuori e a prescindere dai giochi elettorali.

Sarebbero d’aiuto strumenti aperti di comunicazione, gestiti collettivamente, ivi compresa una vera e propria testata giornalistica indipendente, una radio (via etere e online) e una rete di canali televisivi via web (alcune realtà operano già).

Un’altra necessità è la connessione di tutte le competenze e le intelligenze di cui disponiamo, oggi scoordinate e disperse. Magari mobilitate intorno a una rivista, anche online, che raccolga studi, dati, reportage, analisi.

In un secondo momento, si potrebbe anche pensare a una fondazione, sul tipo dell’Omnium Cultural catalano, o qualcosa del genere.

Anche una associazione che riunisca aziende, imprenditori e professionisti, magari votata ai rapporti con l’estero, ma sganciata dalla subalternità alla politica coloniale e aderente alla prospettiva dell’autodeterminazione, sarebbe auspicabile.

Come contraltare servirebbe un nuovo sindacalismo. Combattivo, radicato e soprattutto indipendente dalle centrali sindacali italiane, per troppi versi inadatte al loro compito (al di là della buona volontà e dell’onestà politica soggettiva di chi ne fa parte).

Strategica, non c’è bisogno di dirlo, la rete di rapporti internazionali a cui potremmo accedere tramite la nostra diaspora, specie laddove sia già organizzata.

Sono tutti fattori e soluzioni che formano una base di partenza, una dotazione minima indispensabile, a cui lavorare anche fuori dal Palazzo.

Non vedo altra possibilità, se dobbiamo fare un discorso non meramente teorico di riscatto storico della Sardegna.

I tempi sono difficili. Per certi versi, più difficili di quanto fossero settant’anni fa.  Ma sono anche densi di possibilità.

Questo vuole essere un ammonimento a darci una mossa, non un motivo di scoraggiamento. Di sicuro non potrà andare peggio di come andrà se non facciamo nulla.

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