Pezzo dedicato al film Fuga per la vittoria (Victory, o Escape to Victory, John Huston, USA, 1981).
Dato che l’attualità politica preme e deborda, mi sembra opportuno evadere dalle strette maglie della cronaca ossessiva compulsiva e dedicarmi, una volta tanto, al cinema.
Esistono opere d’arte perfette, libri perfetti, film perfetti.
Non perché siano i più belli, ma perché sono tecnicamente e narrativamente compiuti. Non potresti cambiare qualcosa senza rompere l’equilibrio raggiunto.
Non è detto che si tratti nemmeno dei capolavori più celebrati. La perfezione può trovarsi anche in opere considerate minori.
Per quanto mi riguarda un esempio di film perfetto è proprio Fuga per la vittoria.
Come si sa, è un film che tratta sostanzialmente dell’evasione di un gruppo di prigionieri di guerra alleati dalla prigionia nazista, tramite l’espediente di una partita di calcio.
E in effetti Fuga per la vittoria è considerato per lo più un film sul calcio, o annoverato nel genere dei film sportivi.
Non sono del tutto d’accordo su questa classificazione. Non perché il calcio non vi sia. C’è, eccome, enfatizzato ed esposto con tutti i crismi, con tutta l’epicità e con tutti i significati che questo gioco, nelle sue migliori espressioni, si porta appresso.
Ma il calcio è quasi un pretesto.
Tutta la vicenda del film ruota in realtà intorno ai temi della solidarietà, del sacrificio personale per un interesse più alto, della tenacia e della forza che servono per sfidare e magari sconfiggere l’oscurità della follia umana, la sopraffazione, la privazione della libertà.
Una sceneggiatura ben congegnata, un cast eccezionale – mix tra attori di gran vaglia ed ex calciatori professionisti, tutti “in parte” -, una regia attenta, calibrata, versatile, al servizio della storia: questi sono gli ingredienti della pellicola.
Ad essi si aggiunge una colonna sonora bellissima, che riprende alcuni temi tratti dalle sinfonie n. 5 e n. 7 di Šostakovič.
Quando uscì, il film entusiasmò il pubblico, specie giovanile, con scene di tifo da stadio dentro le sale cinematografiche, come se si stesse assistendo in diretta all’evento sportivo e non alla sua riproduzione filmica.
Rivisto a distanza di tempo, se è più agevole riconoscere le trovate narrative e anche la linearità un po’ stereotipata dei personaggi, il film non perde di freschezza e di impatto emotivo.
La partita di calcio tra prigionieri multietnici e la migliore formazione del Reich nazista assume in definitiva le sembianze – dichiarate – dell’allegoria.
Così come il nazismo non riesce a vincere una partita, benché sia agevolato in tutti i modi leciti e soprattutto illeciti, allo stesso modo non riuscirà ad avere la meglio storicamente sui popoli liberi.
La forza del rispetto tra diversi e dell’inclusione (compresi i prigionieri provenienti dai campi di concentramento del fronte orientale) sconfigge qualsiasi purezza della razza.
Tanto più se hai tra le tue file un signore chiamato Pelé, nero contro gli ariani, novello Jesse Owens, ma su un campo di calcio.
La perfezione del film sta sia nella sua confezione, particolarmente indovinata, a dispetto delle ingenuità e di qualche sporadico e marginale arbitrio storico, sia nella bellezza del suo messaggio, reso senza didascalismi astratti.
L’ufficiale nazista, appassionato di calcio, che alla fine riconosce la bellezza dell’esito sportivo e la bravura degli avversari, pur sapendo che probabilmente sarà ritenuto responsabile della beffa patita, è una scena tra le più significative.
Non meno della figura da smargiasso sopra le righe e per lo più fuori luogo attribuita allo yankee di turno, interpretato in modo convincente da Silvester Stallone.
Il tocco finale di una Marsigliese cantata dalla folla, spontaneamente, al momento giusto, è uno dei vertici emotivi della vicenda, non meno toccante dell’altra famosa Marsigliese cinematografica, quella del film Casablanca.
Poco importa la concessione del lieto fine, comunque aperto. Tutto quello che il film aveva da dire era già stato detto e la probabile salvezza finale dei “buoni” è solo il coronamento di una vittoria non ottenuta sul campo (dato che la partita finisce in pareggio), ma certamente politica e morale.
Conclusione diversa rispetto alla vicenda drammatica a cui il film si ispira, ossia quella della cosiddetta Partita della morte, giocata nella Kijv occupata dai nazisti. Una squadra di ucraini e altri calciatori slavi sfidò e sconfisse una squadra di ufficiali tedeschi.
In questo caso, secondo il racconto più in voga, il premio fu la tortura e la morte nei campi di concentramento. Chissà se messa nel conto dagli ucraini vittoriosi. In ogni caso, anche loro divennero emblema di dignità e di resistenza davanti allo spietato occupante.
La filmografia sportiva è piuttosto ampia, sostanzialmente un genere a sé. E contempla non poche pellicole di spessore (da Colpo vincente, col basket come gioco protagonista, a Momenti di Gloria, dedicato agli sport olimpici, a Ogni maledetta domenica, dedicato al football americano, e via elencando).
Ma Fuga per la vittoria mantiene nel tempo una sua particolare aura di epicità, senza scadere nella pesantezza retorica né nel manicheismo sempliciotto di tanti film commerciali hollywoodiani.
Di questi tempi, mi pare un film da tenere a mente e da riproporre convintamente. Come pro memoria. Come contrappeso emotivo. Come avvertimento.