Dalla Jugoslavia alla Spagna: stati, nazioni, nazionalismi e democrazia

Ieri sera (17 settembre) si è concluso il campionato europeo di basket. In finale due squadre slave, Slovenia e Serbia. Ha vinto, un po’ sorprendentemente, la Slovenia.

Chi segue la pallacanestro sa che la scuola slava di questo sport è una delle migliori al mondo. In passato la Jugoslavia ne è stata una delle potenze mondiali.

La Jugoslavia. Quando esisteva.

Chi è abbastanza grande (ma in italiano corretto dovrei scrivere “anziano”) per ricordarsi i fatti dei primi anni Novanta del secolo scorso, non può che essere affascinato e anche in qualche modo emotivamente turbato da questo fatto di sport apparentemente marginale.

Vedere i giocatori delle due squadre abbracciarsi e farsi reciprocamente i complimenti, alla fine di un match tiratissimo, richiamava inevitabilmente alla mente il dramma della ex Jugoslavia degli anni 1991-95, i suoi significati e i suoi paradossi.

I genitori di quei giocatori erano stati cittadini del medesimo stato sino a non molti anni fa. I loro nonni e bisnonni avevano vissuto gli anni della Resistenza al nazi-fascismo e della ricostruzione post-bellica, sotto il Maresciallo Tito.

Tutta la storia degli ultimi ottant’anni si è condensata, su un parquet turco, negli abbracci, a tratti non solo sportivi ma davvero affettuosi, tra giocatori e staff di due nazionali teoricamente divise da astio, se non da odio.

Tutte le contraddizioni insite nei processi di nation and state building (la “costruzione” delle nazioni e degli stati) sono state riassunte in una competizione sportiva, dura e combattuta, che si è risolta in un abbraccio fraterno fra avversari.

Mettere in connessione questo evento sportivo con quanto succede in questi giorni in Catalogna è inevitabile.

L’ex Jugoslavia si è dissolta in una sanguinosa guerra etnica che ha richiamato alla memoria le atrocità della II Guerra mondiale e del nazi-fascismo. I suoi popoli, quale più quale meno, hanno pagato prima di tutto sulla propria pelle quella vicenda. Non dimentichiamo che ancora nel 1999 la Serbia è stata bombardata dalla NATO (Italia compresa).

Il Regno di Spagna oggi corre un rischio analogo, sebbene per adesso sia lontana l’eventualità di un esito sanguinoso (che spero nessuno auspichi).

Eppure vedo che a Madrid si sta facendo di tutto per esasperare gli animi e trasformare quella che poteva essere una consultazione popolare democratica dal risultato incerto in un dramma politico e civile.

L’ottusità centralista del governo di destra di Mariano Rajoy (franchista nei fatti, anche se non nel nome) radicalizza da tempo – non solo ultimamente – la vertenza con la Catalogna, dando l’impressione di aver scientemente scelto la via del conflitto, della forza, della paura, anziché accettare che si compisse un processo democratico.

Naturalmente il sottotesto della ostinazione di Madrid è il pericolo per l’esistenza stessa della monarchia spagnola, garante sì del passaggio dal franchismo alla democrazia, ma anche della sostanziale continuità e legittimità di un certo franchismo appena appena rivestito nel nuovo regime post 1975 (e post 1981).

Il ragionamento elementare sembra il seguente: consenti un referendum di questo peso e dopo un po’ ne spunta un altro da qualche altra parte (in Euskal Herria, per esempio) o sulla forma di governo (monarchia o repubblica?).

Vedere sloveni (allenati da un serbo e con in squadra il talento straripante di un giovanotto mezzo serbo, Luka Dončić) e serbi abbracciarsi fraternamente, ricordando quel che hanno passato solo pochi decenni fa, e pensare alle scelte reazionarie del governo spagnolo innesca dunque una consonanza, a sua volta meritevole di riflessione.

Infatti, su un piano più generale, non può che sollecitare un ulteriore ragionamento su cosa significhi “stato”, su cosa siano le “nazioni”, su come si configurino le aspirazioni all’autodeterminazione dei popoli anche e soprattutto nella civile e democratica Europa.

L’autodeterminazione mette in crisi gli assetti politici europei, è inevitabile, ma non è un buon motivo per rifiutarla a priori e per ascriverla sempre, come fosse un riflesso condizionato, a un processo necessariamente reazionario.

Bisogna accettare l’esistenza di fenomeni come l’aspirazione a una propria sfera di soggettività collettiva da parte di popoli che non la detengono.

Bisogna trovare le modalità giuridiche e politiche per consentire che, anche in vigenza di costituzioni rigide e di assetti politici consolidati, le vicende dei popoli europei possano svilupparsi in termini democratici e pacifici.

Devo richiamare delle considerazioni già fatte in questa stessa sede. La dialettica tra le pulsioni insopprimibili all’autonomia, all’autogoverno, all’autodeterminazione e l’esistenza di una sfera di valori universali condivisi e di diritti umani riconosciuti non è una opposizione necessariamente conflittuale.

Non era necessario che l’ex Jugoslavia diventasse un teatro di guerra e di atrocità, nel 1991. E non era nemmeno un esito inevitabile.

Il peso che ebbero in quella circostanza da un lato i rispettivi nazionalismi e dall’altro gli interessi concreti delle élite europee (tedesche in primis) fu determinante nel tradurre un’eventualità storica del tutto plausibile (le ex repubbliche federate jugoslave che dichiarano la propria indipendenza una dall’altra) in una vicenda tragica.

Per che cosa, poi? Per trovarsi abbracciati e commossi alla fine di una partita di basket, con le rispettive bandiere (ovviamente molto simili tra loro) una a fianco all’altra.

È così difficile accettare la democrazia fino in fondo? Perché in nome suo ancora oggi si può agire in modo del tutto antidemocratico e pretendere anche di avere ragione (come fanno il governo di Madrid e tutta la classe dominante spagnola)?

La democrazia ha senso solo se è concreta, se fonda le relazioni tra persone, tra gruppi, tra popoli. Se è una variabile dipendente da interessi privati o di classe, se vige o non vige a seconda della convenienza di un apparato di potere, se non realizza nei fatti l’eguaglianza e la libertà dei cittadini semplicemente non è democrazia.

La stessa aspirazione all’autodeterminazione cambia segno se procede democraticamente o se è espressione di pulsioni reazionarie e xenofobe.

Quella catalana è evidentemente una via democratica all’autodeterminazione. Frustrarla, sia pure in nome di un’astratta legittimità costituzionale, non è altrettanto democratico.

Cosa dovrebbe scegliere l’Europa, dunque? Come dovrebbero reagire le forze politiche, le forze sociali, i mass media, i governi, i parlamenti?

Una domanda che suona quasi retorica, data l’inerzia e il sostanziale attendismo dell’Europa, in tutte le sue componenti.

Quasi tutte, a dire il vero. Com’è comprensibile, la vicenda catalana trova sponda e condivisione soprattutto dove vi siano popoli senza stato e minoranze che aspirano a un riconoscimento anche formale della propria soggettività storica.

Chiaramente, ognuno poi declina il proprio appoggio al Procés catalano secondo i propri obiettivi e i propri valori.

Tuttavia, fatta la tara degli opportunismi e delle ipocrisie, bisogna anche riconoscere che il segno politico della via catalana all’indipendenza non è certo reazionario. Tutt’altro.

Non solo si è scelta la via democratica, ma i temi, le forze sociali e gli obiettivi presenti sulla scena sono largamente progressisti, emancipativi, lontani dalle chiusure nazionaliste e razziste dei cosiddetti “sovranismi” europei.

Che infatti non si esprimono affatto o sono ostili al Procés catalano.

Tuttavia bisogna allargare il senso di questa vicenda. Non è una questione che può limitarsi agli indipendentisti e alle forze etno-regionaliste o nazionaliste (di qualsiasi segno).

Se l’idea di Europa democratica ha ancora oggi un senso lo ha proprio perché è o deve essere uno spazio di democrazia realizzata.

Pensare all’Europa e pensare alla UE, ossia ai burocrati di Bruxelles, alle banche, ai grandi interessi di classe consolidati e protetti dalla sua architettura istituzionale, non deve essere la stessa cosa.

La Catalogna chiama, oggi, così come chiamava la Jugoslavia ieri, ma mi pare che non stiamo rispondendo adeguatamente.

Se è così, come temo, è un errore gravissimo.

L’Europa, i suoi stati, le sue élite dominanti devono trovare il modo di coniugare un assetto giuridico, economico e sociale solido con l’aspirazione all’autogoverno dei vari popoli che la compongono.

Non è più il tempo della Pace di Westfalia o del Trattato di Utrecht. Devono essere i popoli, le collettività storiche reali, i territori, a fondare un nuovo patto di convivenza pacifico e democratico.

Contro i centralismi degli stati-nazione ottocenteschi (che così pessima prova di sé hanno dato nel Novecento), contro i nazionalismi reazionari e xenofobi (in salsa ungherese o polacca o francese o italiana che sia), contro la tecnocrazia cleptocratica sovranazionale.

È una prospettiva dentro la quale deve inserirsi e trovare la propria collocazione anche il processo di autodeterminazione sardo, che partecipa alla temperie politica contemporanea a pieno diritto e con la stessa dignità degli altri.

Su questo, mi aspetto che tutti i sinceri democratici sardi, al di là della propria collocazione o meno sul versante dell’indipendentismo esplicito, ragionino e si esprimano.

Non credo che basti una partita di basket a darci un segnale in senso positivo. Non so nemmeno se basterà l’esito – quale che sia – del referendum catalano (così come non è bastato quello scozzese).

Ma di questo sono ragionevolmente convinto: qui c’è la strada politica da percorrere, se vogliamo che gli anni e i decenni prossimi venturi non siano una banale, e probabilmente drammatica, replica di una storia già vista.

 

[Qui il testo del manifesto di vicinanza e solidarietà dei Sardi ai Catalani.]

 

 

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