Il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Cagliari, Roberto Saieva, come prevede il calendario giudiziario ha svolto pochi giorni fa la sua relazione di inizio anno. Tra le varie cose ha avuto modo di chiamare in causa la presunta indole delinquenziale barbaricina e l’atavico individualismo sardo. Si dirà: con tutto quello che succede, proprio lì doveva andare a parare? Be’, si vede che avere a disposizione qualche cliché trito e ritrito fa sempre comodo, se non si ha tanta voglia di ragionare obiettivamente sulle questioni. E i pregiudizi sono durissimi a morire. Ecco i passaggi “incriminati” della relazione (grassetto mio):
Quanto alle tendenze dei fenomeni criminali, è innanzitutto da rilevare (…) l’aumento del numero degli omicidi volontari (…) sono delitti d’impeto (…) ovvero sorretti – e più spesso- da moventi che si radicano nella cultura degli ambienti agro-pastorali.
Altro fenomeno criminale che nel territorio del Distretto appare di rilevanti proporzioni è quello delle rapine ai danni di portavalori (…) agevole la considerazione che nella esecuzione di questi delitti si sia principalmente trasfuso l’l’istinto predatorio (tipico della mentalità’ barbaricina) che stava alla base dei sequestri di persona.
“Non vi sono evidenze investigative che denuncino l’insediamento nel territorio di gruppi di criminalità organizzata di tipo mafioso (…) nè possono essere considerate particolarmente allarmanti le presenze (…) di imprese riconducibili a contesti mafiosi (…) come non sono sintomatiche iniziative dirette al reimpiego di capitali illeciti attraverso investimenti immobiliari nelle aree costiere (…). Si tratta di fatti che costituiscono oggetto di attenta osservazione (…) ma che allo stato non denunciano una mutazione della congenita refrattarietà del popolo sardo a fenomeni criminali caratterizzati da stabile organizzazione, quale probabile riflesso, positivo in questo caso, dello specifico individualismo che lo connota.
Affermazioni e argomentazioni chiaramente razziste, fondate su luoghi comuni destituiti del benché minimo fondamento storico e/o sociologico, per di più riferite a un territorio (la Barbagia e l’intera Sardegna) dal tasso ciminale tra i più bassi al mondo.
Sulla natura e le dinamiche della criminalità in Sardegna servirebbero studi accurati e non scempiaggini razziste senza capo né coda, proferite da un alto rappresentante dell’ordinamento giuridico italiano sull’isola. Quanto all’assenza della mafia in Sardegna, a spiegarla basterebbe ricordarsi che la Sardegna non è la Sicilia né appartiene (geograficamente, storicamente e culturalmente) al Meridione italiano. Non solo, potremmo anche dire che in Sardegna la mafia non c’è perché non ce n’è bisogno. Ci sappiamo arrangiare con i nostri mezzi. L’individualismo sardo è un elemento mitologico tecnicizzato, niente di congenito né di storicamente concreto. Ma tant’è, il razzismo italico, rivestito di sociologismo lombrosiano d’accatto, è duro a morire.
Sui mass media isolani questo “incidente” non ha avuto risalto. Qualche commento sui social media ha portato la faccenda all’attenzione dei frequetatori dei medesimi, ma da lì non si è mossa. Non è un fatto significativo, evidentemente. Oppure, penso io, per molti sardi, specialmente nell’establishment politico-istituzionale, accademico e intellettuale, si tratta di assunti condivisibili.
Il problema, dunque è sì l’atteggiamento sempre oscillante tra il paternalista e l’apertamente razzista delle istituzioni italiane verso la Sardegna (che si tratti di qualche esponente del governo centrale o di altri rappresentanti della classe dirigente italiana), ma a ben guardare è prima di tutto l’accondiscendenza passiva della presunta classe dirigente sarda verso tale fenomeno.
Tanto più grave, in quanto si verifica in un momento in cui la nostra politica sta procedendo a tappe forzate alla ridefinizione coloniale della Sardegna, nel quadro dei rapporti di forza interni allo stato italiano e al contempo nell’ambito delle relazioni internazionali.
Il compito affidato alla giunta Pigliaru è quello di garantire la passività della Sardegna davanti alle prospettive conflittauli che ci attendono nei prossimi decenni. Questa compagine di governo regionale ha dalla sua, rispetto a chi l’ha preceduta, una consapevolezza ideologica più forte e una maggiore efficienza pratica.
Non c’è questione di fondo o partita strategica in cui la giunta dei professori stia facendo gli interessi dei Sardi e della Sardegna. Nemmeno una. Al più, si gingilla con effetti annuncio e con sparate propagandistiche di bassa lega, certa della propria sostanziale impunità.
Possono contare facilmente su un livello culturale mediamente disastrato, su un tasso di istruzione bassissimo, su una debolezza civile e sociale evidente, sull’assenza di una vera opposizione politica (inesistente dentro le istituzioni e frammentata fuori di esse).
Le parole del procuratore Saieva, ben degne di un De Maistre o di un Carlo Feroce, sono inaccettabili, beninteso. Qualsiasi presa di posizione pubblica volta a stigmatizzarle non sarà mai inopportuna né intempestiva. Tuttavia tenderei a spostare lo sguardo e la lente della critica.
La loro sostanziale condivisione da parte di un certo numero di sardi si associa dramaticamente alla nostra patologica debolezza collettiva verso le questioni macroscopiche cui dobbiamo far fronte. Oggi come oggi siamo del tutto indifesi davanti a qualsiasi evenienza, dalle più banali alle più tragiche. In uno scenario del genere, gli interessi costituiti esterni e la consorteria che esprime la giunta Pigliaru hanno gioco facile ad agire sostanzialmente indisturbati sull’isola.
Basti pensare che a livello sociale hanno ancora potere i sindacati confederali italiani (quel che ne resta), le consorterie clientelari, gli speculatori del perenne ricatto occupazionale. Da parte di questi centri di potere locale, prosperi e legittimati nel contesto della dipendenza, viene sempre e solo il sostegno a qualsiasi schifezza ci propini il padrone coloniale di turno, che siano i cardi, o le canne, o il carbone, o gli inceneritori. Persino le servitù militari, agli occhi di questi benemeriti, sapientemente rappresentati dai sindaci locali, diventano una risorsa per la sopravvivenza anziché un ostacolo ad essa.
Direi dunque che le parole del procuratore Saieva possono giusto servire a completare il quadro. Siamo prigionieri di una distopia mortifera, cominciata due secoli fa e ormai avviata verso il suo tragico finale. Dato che a quanto pare non è possibile tornare indietro nel tempo e cambiare la storia, dovremmo quanto meno aprire gli occhi su quello che succede, sulle sue ragioni profonde, e piantarla di gingillarci dietro a specchietti per allodole o a illusioni pericolose.
È necessario aprire squarci di luce nelle tenebre dell’ignoranza e della deprivazione che ci stanno soffocando. Il compito spetta prima di tutto a chi più sa, a chi dispone di maggiori risorse di comprensione. Non ergendosi su un piedistallo da cui impartire lezioni, ma agendo dentro le questioni aperte, fornendo chiarimenti, condividendo conoscenze e strumentazioni critiche, facebdo proposte. Poi, certamente, serve organizzare una opposizione forte e strutturata, a vari livelli, che sia propedeutica a un cambio non solo di maggioranza, ma proprio di modello politico e di prospettiva.
Se le cose cambieranno davvero, in termini socio-economici, civili, culturali e politici, non potrà più esserci alcun procuratore Saieva che si sentirà libero di insultarci a casa nostra, senza che qualcuno, pubblicamente e magari persino a livello istituzionale, si senta autorizzato ad assestargli una metaforica pedata nel didietro. Con o senza istinto predatorio.
Salve,
mi può dire da dove ha attinto questa informazione?
“un territorio (la Barbagia e l’intera Sardegna) dal tasso ciminale tra i più bassi al mondo.”
Dalle statistiche annualmente prodotte dal ministero degli interni e dalla loro elaborazione ad opera di organi di stampa (tipo Il Sole24Ore e la sua classifica delle province italiane, ecc.). Sono reperibili con una certa facilità anche online.
Che avere un basso tasso criminale entro i confini italiani comporti avere un basso tasso di criminalità in generale, su scala internazionale, è un’inferenza. Ma anche lì i dati sono abbastanza noti e da anni.
Questo è vero in termini di valori assoluti ma non lo è percentualmente rispetto al numero di abitanti. Per esempio, per quanto riguarda gli omicidi, il tasso di criminalità sardo e di gran lunga superiore rispetto alla media italiana e, sempre a titolo di esempio, alcuni paesi della provincia di Nuoro, come Orune, hanno tassi di omicidi paragonabili a quelli siciliani e calabresi.
No. Non è vero affatto. E le statistiche sono chiare. Le famose classifiche in cui la provincia di Nuoro risulta la più sicura d’Italia (in altri anni la più sicura era Oristano e Nuoro era comunque sul podio, per dire: è una costante) sono compilate tenendo conto di tutte le variabili e in generale dell’impatto della criminalità sulla popolazione.
Non ci sono santi: la Sardegna e il Nuorese risultano luoghi particolarmente sicuri. Bisogna farcene una ragione. Anche se contraddice gli stereotipi negativi a cui troppi sardi sono ancora perversamente affezionati.
Purtroppo invece è vero, proprio perché le statistiche sono chiare e non sono fatte basandosi su stereotipi negativi ma su dati reali. Almeno, come dicevo, per quanto riguarda gli omicidi.
Ragioniamo sui dati Istat prendendo per esempio quelli elaborati e da lei citati del Sole 24 Ore che trovano in questo link:
http://www.infodata.ilsole24ore.com/2015/05/05/furti-e-omicidi-la-mappa-della-criminalita-nelle-regioni-italiane/
I dati arrivano fino al 2013 e come lei stesso potrà constatare per quanto riguarda gli omicidi nella classifica italiana la Sardegna è al quinto posto dopo Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Se scorre gli anni precedenti la situazione è più o meno la stessa.
Se vuole invece considerare solo gli omicidi volontari consumati la classifica è diversa (Calabria, Campania, Sicilia, Puglia) ma la Sardegna resta saldamente in quinta posizione:
http://www.ilquotidianoweb.it/news/cronache/734311/Calabria-al-vertice-della-classifica-in.html
Per restare sempre sugli omicidi volontari consumati, questi invece sono dati del 2012 riferiti ai soli capoluoghi di provincia. Se nella mappa interattiva seleziona appunto gli omicidi volontari consumati scoprirà che la città di Nuoro ha lo stesso numero di denunce ogni centomila abitanti di città come Enna, Caserta e Crotone.
Per finire, l’Osservatorio Sociale sulla Criminalità in Sardegna ci dice:
“per ciò che riguarda gli omicidi consumati, fra il 2000 e il 2013 la Sardegna si sia sempre attestata al di sopra della media nazionale, con una breve pausa negli anni 2009/2010 … Gli omicidi avvengono prevalentemente in alcune delimitate aree situate nella Sardegna Centro-Orientale … Quest’area comprende paesi e territori delle province di Sassari, Gallura, Nuoro, Oristano e Ogliastra … tra i primi comuni per numero di omicidi consumati vi sono Oliena, Orune, Bitti e Dorgali.”:
http://www.sardegnasoprattutto.com/archives/8271
È un’argomentazione fallace. Non si parla di omicidi, termine che non compare né nel mio post, né nelle frasi del procuratore Saieva chiamate in causa. Estrapolare una voce statistica tra tante e fondare su un dato parziale una obiezione generale è un errore di metodo (se fatto in buona fede). Oppure è un trucco retorico piuttosto scorretto.
Il discorso è: la Sardegna è una terra con un basso tasso di criminalità (vero); un alto funzionario dell’ordinamento giuridico italiano (e in questo caso della magistratura inquirente) basa una parte rilevante della sua relazione di inizio anno giudiziario su preconcetti di stampo razzista (fatto evidente e grave di suo) o su stereotipi destituiti di qualsiasi fondamento (Il “tipico” individualismo sardo); a questo evento non segue alcuna presa di posizione pubblica da parte delle istituzioni politiche regionali, e persino i mass media ne parlano solo a seguito delle polemiche nate e diffuse nei social network. La questione è questa.
Che la Sardegna riguardo agli omicidi sia al quinto o al decimo o al secondo posto nelle statistiche di questo o quell’anno, vuol dire davvero poco, in questo contesto. Il tema può essere affrontato, certamente, e valutato alla luce di una conoscenza magari non episodica. Anzi, diciamola tutta: bisognerebbe sollecitare degli studi puntuali sui fenomeni criminali contemporanei nell’isola. Così come, del resto, su altre questioni sociali, socio-economiche e socio-culturali di primaria importanza, su cui però sappiamo poco o niente. Ecco un altro bel problema di cui discutere.
“Ecco un altro bel problema di cui discutere.” Appunto, è quello che stavo facendo. E infatti di omicidi sono io che ne parlo, non lei né Saieva. Normalmente in una conversazione su un blog (e quindi non in un confronto tra accademici, cosa che, non so lei, ma io non sono) da argomento nasce argomento, senza che per questo l’argomento successivo debba essere necessariamente ricondotto a “errore di metodo” o a “artificio retorico” in relazione all’argomento precedente. Tanto più che la mia non era una risposta al suo articolo ma al suo commento. E la mia obiezione riguarda il suo argomento, questo sì fallace (se la vuole mettere in questi termini), secondo il quale “la Sardegna e il Nuorese risultano luoghi particolarmente sicuri” solo perché hanno un tasso generale di criminalità tra i più bassi del mondo. Due territori ipotetici possono avere un tasso di criminalità generale identico ma se il tasso di uno è influenzato dal tasso di omicidio volontario e l’altro dal tasso di furto di galline, converrà con me che il dato generale non ci dice nulla sul crimine dei due territori mentre la singola voce statistica praticamente ci dice tutto. Quindi, in questo caso ipotetico, pur avendo i due territori un tasso generale di criminalità identico, quale dei due è meno sicuro? Ragionevolmente, anche se allevassi galline, sarei portato a dire che è meno sicuro il primo, non foss’altro perché l’omicidio volontario è un crimine di gran lunga più grave del furto di gallina ma anche perché uccidere volontariamente una gallina non è omicidio mentre uccidere volontariamente un allevatore di galline sì, e anche gli allevatori di galline possono correre il rischio di essere uccisi volontariamente. Il problema è che è possibile che nel secondo territorio l’alto tasso di furti di galline possa essere statisticamente rilevante perché quel territorio magari è il primo produttore di uova al mondo. E quindi, a proposito di “un altro bel problema da discutere”, la domanda è: perché, pur non essendoci criminalità organizzata, il tasso di omicidi in Sardegna (e del Nuorese in particolare) è ai livelli dei territori in cui è forte la presenza della criminalità organizzata? E su questo, sono d’accordo con lei, sappiamo poco o niente.
Mi sembra che parta da un presupposto erroneo.
Su un blog si commenta il post, nel merito, possibilmente in modo pertinente, comunque rispettando la netiquette (quella generica e quella specifica del sito).
Il post non era una disamina accademica sulla criminalità sarda, è evidente. Di cosa parli è del tutto chiaro ed esplicito.
La risposta a quest’ulteriore obiezione non può dunque che reiterare la precedente: parlare di omicidi in Sardegna è fuori luogo, off topic, non pertinente.
Che la Sardegna sia un posto più violento e pericoloso di altri in Italia, ribadisco, è falso e se si confrontano le statistiche sarde, anche quelle degli omicidi, con quelle di altri paesi, l’evidenza del basso tasso criminale aumenta.
Sia come sia, il discorso (accessorio rispetto a quello principale) riguardava in generale la sicurezza e il basso tasso di criminalità in Sardegna, dati non smentibili (se non smentendo le fonti ufficiali su questi fenomeni).
Il fatto di insistere invece sulla questione degli omicidi – mai toccata, né rilevante in questa sede – mi porta a interrogarmi sul perché si faccia questo evidente e arbitrario spostamento di focus in una questione i cui contorni sono invece chiarissimi: dichiarazioni inaccettabili di un’alta carica dell’ordinamento statale italiano in Sardegna e mancanza di reazione alle medesime da parte della politica e dell’establishment locali (che è il vero tema del post). La mia spiegazione di questa omissione è chiaramente espressa. Opinabile come tutte le ipotesi e le argomentazioni, naturalmente. Si può contestare quella, con argomentazioni appropriate. Divagare tanto per oscurare la questione principale non è un buon modo di discutere.
Se esiste un pessimo modo di discutere è proprio quello di insinuare, come fa lei, che il proprio interlocutore sia in malafede: i logici la chiamano fallacia dell’argomentum ad hominem; dovrebbe saperlo, visto che, a quanto pare, è più interessato a impartire lezioni di teoria dell’argomentazione piuttosto che mostrare apertura al confronto. Per cui non ho altro da aggiungere e la saluto.
Non è dando del “lei” che si dimostra rispetto.
Anche qui c’è un errore. Non si tratta di un argomentum ad hominem, com’è evidente, se attiene al modo e al merito del discorso. Lo sarebbe stato se avessi denigrato l’interlocutore o lo avessi sminuito personalmente per indebolirne artificiosamente le argomentazioni e per evitare di restare in tema. Più o meno come stai facendo tu. Bravo, hai studiato. Ma qui non c’è trippa per gatti.
Se ti interessa il contenuto di quello che ho scritto e hai qualcosa da dire in merito, sei il benvenuto. La porta è aperta e il dialogo pure. Altrimenti, no.