L’ignoranza ci distruggerà, mi sembra evidente. Ignoranza intesa non come la semplice mancanza di un titolo di studio, ma come la disconnessione sistematica tra la realtà e la nostra capacità di comprenderla.
Ci sono due aspetti di questa faccenda da tenere presenti. Il primo è che tutto ciò non avviene solo per cause incontrollabili, come effetto di fattori restrittivi insormontabili, ma per buona parte a causa della deliberata azione umana. Il secondo aspetto riguarda il capire perché tutto ciò avvenga, come e a vantaggio di chi.
Il nostro mondo è in una fase delicata. La biosfera è stata strapazzata da uno sfruttamento umano mai visto prima, avvenuto nelle ultime tre o quattro generazioni. Il nostro pianeta ha una notevole capacità di reazione e di resilienza, ma deve fare i conti con la propria finitezza. Non è infinitamente grande, non offre risorse vitali infinite, non è in grado di riprodurre tali risorse in tempi troppo rapidi.
In tutto questo la nostra specie si è moltiplicata senza controllo, assorbendo sempre più energia e sempre più risorse, senza darsi pensiero della loro finitezza, e in più impoverendo l’intero sistema-mondo con inquinamenti, devastazioni, dissipazioni sconsiderate. Le guerre e le grandi crisi economiche e sociali sono solo un elemento intrinseco e inevitabile di tale andamento.
Che in questo scenario la preoccupazione di molti di noi sia la presenza o meno dei presepi nelle scuole pubbliche italiane la dice lunga su come stupidità e ignoranza associate possano fare disastri enormi a buon mercato, col minimo sforzo.
Il mondo è davvero complesso, lo sappiamo, e più lo conosciamo più ci rendiamo conto della sua complessità. Che significa anche fragilità, in un certo senso. Fragilità prima di tutto della nostra condizione esistenziale, di ospiti casuali dell’unico pianeta abitabile conosciuto, orbitante attorno a una stella periferica e marginale della Galassia che ci accoglie.
C’è chi queste cose le sa perfettamente, solo che ha anche tanta voglia sfruttare tale superiore conoscenza a proprio esclusivo vantaggio, sia pure a danno di tutti gli altri esseri umani.
Non tutti dispongono di una quantità uguale o analoga di informazioni, specie nelle società complesse e stratificate. In queste la disparità di distribuzione delle informazioni e la capacità di usarle rispecchiano abbastanza fedelmente la disparità della distribuzione della ricchezza.
Nel corso dei secoli gli esseri umani hanno saputo escogitare forme di riequilibrio a quella che altrimenti tende sempre, per sua natura, a diventare una rigida clepto-crazia, il dominio dei ladri.
Dei ladri in grande stile, quelli più sfacciati, più intelligenti e più crudeli, ovviamente: gruppi ristretti che si accaparrano ricchezza e potere senza la minima giustificazione che non sia puramente strumentale alla loro stessa auto-perpetuazione (di natura religiosa e/o ideologica e più o meno autoritaria).
Quando nel corso della storia le varie forme di riequilibrio hanno fallito, ne sono sempre scaturite conseguenze drammatiche. Oggi tali conseguenze, lungi dal rappresentare una fase ciclica di rigenerazione, potrebbero essere distruttive in modo definitivo.
Al di là delle cause storiche e del funzionamento dei meccanismi economici e sociali attuali, quel che sappiamo con un certo grado di certezza è che a fronte di un numero relativamente esiguo di esseri umani che possiedono moltissimo, esiste un numero largamente maggioritario di altri esseri umani che possiedono poco o nulla.
Tale discrepanza sta aumentando, benché non stia diminuendo la ricchezza complessiva dell’umanità. Non è un destino ineluttabile, beninteso, né riguarda la soggettiva capacità vitale dei singoli individui.
(Sia chiaro, in natura e nei processi storici non esiste nulla che corrisponda alla definizione che certa pseudoscienza economica e certa politica chiamano “individuo“. Siamo tutti nodi di reti, dentro reti di relazioni. Cosa siamo lo stabiliscono i nostri rapporti con gli altri esseri umani e con l’ambiente materiale e il campo di forze economiche, sociali, culturali e politiche in cui siamo immersi.)
Essere in grado di capire almeno a grandi linee tutto ciò, trovarvi un ordine intellegibile, saper fare connessioni corrette tra gli eventi e le loro cause, riconoscere i processi macroscopici che regolano la nostra esistenza è indispensabile per non essere ridotti alle nostre semplici funzioni biologiche, al servizio di una macchina di cui non scorgiamo né l’insieme degli ingranaggi né il principio di funzionamento. Ed è qui che si manifesta la nostra inadeguatezza al mondo così com’è.
Acquistano dunque un senso più profondo e allarmante le notizie relative agli studi universitari in Italia e di riflesso in Sardegna. Si tratta di dati abbastanza chiari nel delineare una tendenza ormai consolidata e anche nel definire la cifra regressiva, conservatrice e anti-emancipativa di questo fenomeno.
Gli effetti che tale deriva controllata e voluta hanno in Sardegna sono devastanti. Siamo in una situazione molto debilitata di impoverimento materiale e demografico, dentro una fase di passaggio delicata, privi di una classe dirigente propriamente detta e di un sistema socio-economico minimamente funzionante. Se a questo aggiungiamo l’ignoranza in crescita, è facile dedurre verso quale drammatico destino siamo incamminati.
Si parla spesso di analfabetismo funzionale, l’incapacità di comprendere un testo elementare e di svolgere calcoli appena più complicati di 2+2. Ebbene, probabilmente si tratta di un fenomeno reale, ma non tutto questo impoverimento intellettivo è dovuto a cattiva volontà. Una buona parte discende da precise politiche culturali di chi ha governato la cosa pubblica in questi decenni. Inoltre sospetto che ci sia una forte relazione diretta col disagio sociale e il sempre più difficile accesso all’istruzione e alla cultura da parte di chi non ha mezzi economici sufficienti.
Nell’ambito strettamente universitario la tendenza segnalata parla di un indebolimento patologico sia in termini quantitativi sia qualitativi. La Sardegna in questo è messa molto, molto male. Se oggi siamo governati (diciamo così) da una giunta di professori, questo non rappresenta solo un paradosso, ma è prima di tutto la certificazione di una linea politica chiarissima, di cui Francesco Pigliaru, Raffaele Paci e tutti i loro colleghi sono i migliori epigoni.
Una politica reazionaria, che favorisce le élite già privilegiate, a prescindere dalle capacità e dalle qualità umane; che dirotta tutte le risorse verso le partite di proprio interesse, sottraendoli ad altre, magari più rilevanti per la collettività; che seleziona il personale ausiliario e di rincalzo (all’università come nelle istituzioni) sulla base della fedeltà e non delle capacità intellettuali o relazionali; che con le parole d’ordine come “meritocrazia”, “eccellenza”, “semplificazione”, “efficienza” copre pratiche di puro dominio classista e di bassa appropriazione di risorse, spazi, potere.
Questa infida connessione tra élite culturale ed élite politica, inevitabilmente collegata a doppio filo con precisi interessi economici, esprime oggi la nostra classe dominante.
La stessa che organizza il nostro sapere e alimenta mitologie tossiche in nome dello status quo. Quella che inaugura un treno del secolo scorso su binari dell’Ottocento descrivendo questo evento ridicolo come “epocale”. Quella che accetta supinamente che lo stato centrale si tenga per sempre miliardi di euro, dovuti per legge alla Regione da essi stessi amministrata, e lo spaccia per grande successo.
Quella che avalla e garantisce la precarietà dei trasporti interni ed esterni. Quella che parla di scuola e poi si occupa di chiuderle, le scuole, e si disinteressa al fatto che molti studenti non le possano fisicamente raggiungere. Quella che taglia i fondi che dovrebbero garantire il diritto allo studio dei meno abbienti.
Quella che non è in grado di gestire secondo scienza e coscienza un bene comune fondamentale come l’acqua. Quella che ha sempre un occhio di riguardo per gli speculatori del land grabbing, per gli inceneritori, per gli emiri (poco importa se guerrafondai), per i giochi di potere a Roma, a Bruxelles, a Washington e chissà dove altro e non sa nulla, né ha interesse a sapere qualcosa, della Sardegna e dei Sardi.
I dati sull’università sono l’ennesima conferma della volontà profonda che anima la nostra classe dominante, culturalmente e socialmente indistinguibile al suo interno, se non per sfumature, tra le varie fazioni in cui si divide, del tutto organica alle élite italiana ed europea, come queste votata al restringimento degli spazi di libertà, della sfera dei diritti, dell’accesso ai beni comuni. Una classe dominante profondamente antidemocratica e del tutto insensibile alla sorte di povertà, spopolamento e isolamento che ci è riservata, ma anzi alacremente complice di questo processo.
L’ignoranza è un elemento essenziale perché tale disegno di estinzione controllata abbia successo. Lo vediamo anche a un livello più ampio. Siamo tutti capillarmente controllati, schedati, profilati. Nominalmente per ragioni di sicurezza, in realtà fondamentalmente per ragioni di business o di puro controllo sociale e politico.
Noi non sappiamo né capiamo quasi nulla, ma ci piace assecondare le pulsioni indotte dai mass media, sentendoci così al passo coi tempi. I tempi decisi e cadenzati da altri, però.
Caschiamo con la massima facilità in qualsiasi trappola manipolatoria e per di più abbiamo imparato a diffidare ci chi ne sa più di noi, a guardare con sospetto lo studio, a schifare “gli intellettuali”, ad apprezzare le semplificazioni stupide di capipopolo malintenzionati, sempre contro “il sistema” ma sempre ad esso indispensabili.
L’antidoto a tutto questo è la maggiore conoscenza, il confronto tra intelligenze aperte, l’accettazione della complessità, la salvaguardia delle reti sociali e culturali formali e informali in cui la nostra capacità di giudizio può irrobustirsi, a patto che maturiamo qualche minimo accorgimento critico.
E questo può avvenire prima di tutto dentro le istituzioni didattiche e tramite le agenzie formative strutturate per rispondere al bisogno pubblico e al diritto fondamentale alla conoscenza.
Istituzioni e agenzie che siano però realmente efficaci, democratiche, dinamiche e dotate delle risorse indispensabili. E tali risorse devono essere prioritariamente investite, con criteri trasparenti e verifiche serie, anche sottraendole ad altri ambiti, dove magari è più facile l’arricchimento indebito o la scalata sociale immeritata (vedasi alla voce sanità, in Sardegna, ma a livello statale la voce grossa la fanno ormai i dispositivi militari).
Il potere costituito ha timore del potere distribuito e il potere distribuito si basa sulla conoscenza socializzata e sulla riduzione della stupidità al suo tasso fisiologico. Le élite che governano l’economia e la politica, invece, ci vogliono più ignoranti e più impauriti. E per ora ci stanno riuscendo.
In Sardegna stiamo pagando e pagheremo un prezzo più salato che altrove. Dobbiamo esserne coscienti e non dare tregua alla nostra politica, alle nostre istituzioni, a chi ha ruoli pubblici in qualsiasi ambito, affinché rispondano alla collettività prima che a qualsiasi altro soggetto o centro di interessi. Sapere di non sapere è il primo passo. Considerarlo un problema da risolvere è quello successivo.