La vera lezione delle elezioni francesi

Esultare per i risultati delle elezioni amministrative francesi in Italia e in Sardegna suona molto ipocrita e in alcuni casi nasconde un retropensiero indecoroso. Che il Front National potesse davvero vincere da qualche parte era una probabilità prossima allo zero, se solo si ha una minima nozione dei processi politici e del funzionamento della macchina elettorale francese. Per questo, senza fare alcuno sfoggio di sofisticate nozioni politiche, anche da queste parti si era stigmatizzato l’allarmismo sugli esiti del primo turno di votazioni.

Il problema che emerge dalle elezioni francesi non è la consistenza elettorale del FN. Quella è un effetto contingente di condizioni storiche ben note: crescente insicurezza sociale, paure indotte nell’opinione pubblica da un sistema di informazione organico all’apparato di potere, mediocrità della politica istituzionale, tradimento degli ideali e dei grandi sistemi valoriali da parte dei partiti tradizionali, ecc.

Ciò che dovrebbe occupare le analisi politiche, insomma, non è lo scampato pericolo di una sorta di fascistizzazione della Francia (e potenzialmente dell’Italia o dell’Europa): quel pericolo non solo c’è sempre, ma rientra precisamente nell’ordine delle cose. E d’altra parte, per una Francia che apparentemente si salva, abbiamo avuto un’Ungheria che ci è caduta con entrambi i piedi e una Polonia in condizioni non dissimili.

È l’intero asse politico europeo ad essersi spostato pesantemente verso il nero. Il baricentro ideale, teorico e pragmatico è evidentemente nel campo della destra, declinata nelle sue varie facce, da quella “repubblicana” della Francia, al neofranchismo più o meno implicito in Spagna, al renzismo in Italia, al neoliberismo conservatore in Gran Bretagna, ecc.

Poco conta che spesso tale spostamento verso destra sia stato attuato da maggioranze miste o addirittura di “centrosinistra”, come spesso si dice. Le etichette elettoralistiche sono buone per i titoli dei giornali e per condire l’infotainment quotidiano di un po’ di artificiosa vivacità, non certo per codificare la sostanza delle opzioni politiche in campo. La distinzione tra centrodestra e centrosinistra, o tra destra e sinistra, in termini elettorali e in termini di reale egemonia politica non hanno più ragion d’essere. Il che non comporta una perdita di rilevanza della dicotomia ideale, valoriale e pragmatica tra i due concetti fondamentali di “destra” e “sinistra”, beninteso. Questa confusione fa comodo ai conservatori e ai populisti di ogni provenienza, ma è tragicamente fallace.

Di fatto l’unico aspetto che divide il FN dagli altri due schieramenti principali in Francia è solo la posizione verso gli assetti europei attuali. Aspetto che però non basta a mutare di segno una proposta poilitica. Tant’è che si può contestare il regime politico e socio-economico dell’Unione Europea sia da posizioni di sinistra sia da posizioni di destra. Non è quello, insomma, il discrimine fondamentale. Sul resto, sfido a distinguere, se non in termini puramente retorici, Marine Le Pen da Nicolas Sarkozy e persino da Valls e Hollande.

Il vero risultato delle elezioni francesi somiglia troppo ad altri risultati elettorali degli ultimi anni, per essere considerato una buona notizia. Consiste fondamentalmente nell’arroccamento dell’establishment di potere a difesa del proprio spazio di dominio, contro qualsiasi eventuale alternativa. Poco importa che essa si manifesti sotto forma di populismo di sinistra, di populismo di destra, di aggregazioni civiche democratiche o di organizzazioni gerarchiche di stampo autoritario. La differenza caso mai sta in questo: il populismo di destra e le istanze autoritarie, nazionaliste, xenofobe possono essere il male minore, ad un certo punto. Come è sempre stato. Il vero pericolo sono le idee, le richieste e le proposte politiche critiche verso gli assetti costituiti, ma con un orizzonte emancipativo, democratico,  fondato sulla coscienza della centralità e dell’universalità dei diritti e della questione dei beni comuni.

Davanti alla prospettiva che un’entità portatrice di queste istanze arrivi non solo a governare ma persino ad essere rappresentata nelle istituzioni, la reazione è sempre molto decisa, senza scrupoli, forte del controllo o della complicità dei mass media principali e del sostegno internazionale.

Per questo il vero risultato democraticamente significativo in Francia è quello della Corsica, così come la vera faglia politica in Spagna è dovuta al processo di indipendenza catalano e, nel Regno Unito, all’opera dello SNP in Scozia. Esempi non facilmente celabili di una tendenza generale in atto, più profonda e più diffusa di quanto appaia ma che gode di pessima stampa.

In Sardegna commentare i risultati elettorali francesi e magari intonare con enfasi la Marsigliese può avere senso solo se si riesce a comprendere bene cosa sta succedendo, prima di tutto dall’altra parte delle Bocche di Bonifacio, che sono molto più a portata di sguardo della stazione Leopolda di Firenze, se solo tiriamo su il grugno dal truogolo della disinformazione all’italiana.

Quel che ne possiamo evincere, per dirne una, è che si può fare a meno di allearsi con e/o sostenere forze politiche e assetti di interessi espressione dell’establishment centralista (e nazionalista a sua volta, francese o italiano che sia) senza per questo pagare pegno in termini elettorali. Del resto, è una conclusione a cui, se non si è in mala fede o del tutto stupidi, saremmo già dovuti arrivare per conto nostro.

Non solo. Deve essere chiaro, senza più scuse, che anche in Sardegna vale la conventio ad escludendum verso qualsiasi proposta politica che esuli dai giochetti di potere interni alla compagine partitica egemone, quella di matrice italiana, ossia a favore della rappresentanza dei soli interessi della nostra classe dominante. Sappiamo come siamo messi, il nostro consiglio regionale è eletto solo con i voti di una parte dell’elettorato sardo, quella che esprime la fedeltà allo status quo: la maggioranza dei sardi è esclusa da qualsiasi forma di rappresentanza democratica.

La rimozione dall’agenda politica istituzionale sarda del dibattito sulla vergognosa legge elettorale regionale è una spia molto chiara delle volontà della nostra classe politica. Per giunta la trappola antidemocratica in preparazione a livello di governo centrale certificherà la definitiva sardizzazione dell’Italia, in termini di riduzione degli spazi democratici anche in senso formale. Gli spauracchi della Lega e del M5S serviranno benissimo, all’occorrenza, per cristallizzare un rapporto di forza che deve garantire interessi e assetti di potere consolidati, e le paure indotte verso immigrati, ISIS, o chissà cos’altro, come qualche immancabile grande evento e/o grande scandalo, distrarranno opportunamente l’opinione pubblica. Renzi farà la sua parte finché sarà utile, male che vada fino all’invenzione di un altro personaggio da mandare sul palcoscenico a intrattenere la plebe. Ai sardignoli, sempre accondiscendenti, basterà ancora per un po’ la giunta “dei professori”.

La democrazia rappresentativa non è il migliore dei mondi possibili né forse è la forma di governo più efficace, ma per ora con questa abbiamo a che fare. Svuotarla di qualsiasi potenzialità emancipativa, privare una parte consistente dell’elettorato del suo diritto di voto (con mezzi e artifici spesso difficili da cogliere), deresponsabilizzare la cittadinanza (con la retorica del “tanto non cambia niente” e del “tutti sono uguali”, tutti sono “casta”), instupidire l’opinione pubblica con continui effetti annuncio, panzane grossolane, celebrazioni del nulla, paure costruite ad arte, falsi bersagli polemici, sono tutti strumenti a cui ricorre l’establishment per autoperpetuarsi. Tanto che persino alcuni che vanno ancora a votare in buona fede spesso votano contro se stessi senza nemmeno rendersene conto, se non a posteriori.

In definitiva, non riesco a vedere nulla di rassicurante nell’esito del voto francese, e l’unica notizia che in quel contesto (e in proiezione) può tenere accesa la fiammella dell’ottimismo (della volontà) è quel che sta succedendo in Corsica. Almeno fino a prova contraria, dato che anche lì è tutto da vedere.

I trionfalismi a base di tricolore francese, almeno in Sardegna, li lascerei proprio perdere, specie se vengono dagli eredi di coloro che quella bandiera la consideravano un segno ostile, duecento anni fa, e ne traevano buone ragioni per reprimere con la forza il tentativo di dare allora alla nostra terra una sua soggettività storica e una dignità che poi non avrà più, fino ai giorni nostri. Molti che oggi si appellano a libertà, eguaglianza e fratellanza sono gli stessi che si battono e si batteranno sempre in Sardegna per scongiurarne l’avverarsi, auspicando democrazia “con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni”, invocando il “voto utile” (a loro), dichiarandosi “cittadini del mondo” (e per questo schifando l’idea stessa di potersi dire prima di tutto, e comunque insieme, “cittadini sardi”), magari definendosi pure “sovranisti”. Vediamo di non farci prendere per il naso.

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