Mettiamola così. Siamo già ben dentro una situazione prebellica, le condizioni ambientali del pianeta non sono buone, la distribuzione delle risorse è pessima, la rapacità delle classi dominanti aumenta. C’è da aspettarsi significativi progressi nei prossimi decenni? Direi di no. Piuttosto, un radicalizzarsi delle situazioni più gravi e una accelerazione dei processi degenerativi, senza escludere l’opzione “guerra aperta”, per cui ci si sta attrezzando un po’ ovunque.
La crisi economica in corso è solo uno dei fattori in ballo e potremmo anche considerarla in realtà un puro strumento di potere, più che un problema oggettivo cui non si riesce a far fronte. C’è chi in questi anni ha mantenuto, se non accresciuto, la propria posizione privilegiata. Chi detiene, controlla e gestisce le risorse e le conoscenze non farà proprio nulla per privarsene a vantaggio di una più ampia porzione dell’umanità: meglio togliersi quest’illusione una volta per tutte.
Purtroppo oggi come oggi è molto facile mantenere diviso il fronte potenziale degli esclusi (attuali e prossimi venturi). La distanza tra il senso comune, l’armamentario mentale della gran massa degli esseri umani, e la realtà storica è imbarazzante. Il livello di complessità dei fenomeni è di molte volte superiore alla capacità della stragrande maggioranza dell’umanità non dico di comprenderli, ma anche solo di intuirne la portata.
A maggior ragione è indispensabile recuperare cornici interpretative generali, principi e valori universali cui fare appello per orientarci nel mondo. Il fatto che i modelli alternativi al capitalismo (più presunti che reali, a dire il vero) siano falliti storicamente non significa che non si debbano riproporre e adeguare alle circostanze le idee di eguaglianza, giustizia sociale, libertà diffusa, diritto di accesso ai beni fondamentali. Tali idee sono state a lungo e sono sempre, per propria natura, il contraltare dell’impostazione capitalista assoluta oggi dominante. Ben più – occorre precisare – delle dottrine della “decrescita felice”: notevole presa per i fondelli persino per molta parte delle pur privilegiate società benestanti del pianeta, figuriamoci per le altre, e per giunta quasi sempre riconducibili a un’ideologia di stampo conservatore o reazionario.
Dentro questo quadro generale si inserisce anche il discorso dell’autodeterminazione, che a sua volta si compone di una parte relativa alla vita concreta delle persone e di una relativa all’esistenza e alle forme di convivenza delle comunità umane. I vari piani del discorso sono interconnessi, non si possono separare senza che qualsiasi proposito emancipativo perda drasticamente forza.
Enfatizzare uno o alcuni aspetti del complesso discorso della autodeterminazione, magari istituendo e assolutizzando categorie astratte, o imponendo formule puramente ideologiche, serve in fondo a neutralizzare qualsiasi possibilità rivoluzionaria. Separare le questioni ecologiche da quelle economiche e quelle economiche da quelle sociali e da quelle culturali, stabilire discontinuità laddove invece c’è da tenere conto di profonde continuità sia in senso cronologico sia in senso geografico, o viceversa imporre continuità fittizie dove esistono differenze conclamate, tutto ciò fa comodo per mantenere o conquistare posizioni di potere, ma non certo per promuovere il miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani e per garantire l’esistenza di una biosfera abitabile.
Quanto appare ridicolo il razzismo dei poveri europei contro i poveri di altre aree del mondo, alla luce della drammatica unicità del processo di impoverimento dell’umanità a vantaggio di una sua ridottissima minoranza? Il fatto che un giovane etiope o somalo o congolese desideri stabilirsi in Europa per sopravvivere e realizzarsi dovrebbe scandalizzare e offendere un giovane sardo o andaluso o fiammingo che ha le stesse umanissime aspirazioni? Una famiglia impoverita italiana o francese deve temere una famiglia ancor più povera dell’Africa subsahariana o non invece i gruppi di potere economico e politico che prosperano sull’impoverimento di entrambe?
Sullo stesso piano, ha senso orientare i percorsi di autodeterminazione in termini di ostilità verso altre collettività, senza mettere prima di tutto in discussione gli assetti produttivi, i rapporti di forza economica e sociale, le manipolazioni culturali che si subiscono in proprio e che spesso e negli stessi termini sono subiti da altri, strumentalmente additati come il pericolo da cui guardarsi?
Comprendere questi fenomeni è fondamentale per tutti. Per i Sardi è vitale. Non possiamo più gingillarci con slogan consunti dall’usura, nemmeno quando riguardano problemi vecchi mai risolti. Le parole d’ordine che non hanno funzionato per anni, se non per decenni, forse hanno in sé qualcosa di sbagliato, data la conclamata inefficacia, anche quando intendano veicolare istanze concrete e sacrosante, giustificate dalla storia. Bisogna interrogarsi molto su questi aspetti.
Occorre dotarsi di conoscenze maggiori, in vari campi. Bisogna maturare uno sguardo sul mondo che non sia provinciale né ombelicale. Bisogna capire che l’umanità è una e noi ne siamo parte, al di là delle classificazioni di comodo e dei costrutti ideologici. Deve interessarci di più la sorte degli altri popoli, non solo in quanto possibili esempi, ma anche propriamente come con-sorti, portatori di una vicenda collettiva che ci riguarda.
In questo senso, a titolo di esempio, per noi ha rilevanza e offre elementi di valutazione più il caso della Grecia che quello della Catalogna. I fatti dell’Ucraina devono darci da riflettere almeno quanto quel che succede in Scozia. E allo stesso modo la Tunisia ha da dirci qualcosa di più dell’Irlanda del Nord. Contemporaneamente e non in alternativa è indispensabile ragionare sui modelli produttivi, sulle forme della divisione del lavoro, sulle relazioni tra soggetti economici a vasto raggio.
La classe dirigente sarda ha la capacità o almeno la volontà di confrontarsi con questo ordine dei problemi? Io temo francamente di no. Eppure sono queste le questioni che ci chiamano in causa, non certo un dibattito ridicolo nei contenuti e offensivo nei toni nel parlamento italiano. Ridicolo e offensivo prima di tutto da parte dei rappresentanti sardi che se ne fanno convinti (e patetici) promotori.
La politica sarda in realtà pensa preferibilmente alle proprie trame meschine, ai propri giochetti di potere locale, al successo di cricca come veicolo per conquiste personali. Meglio un appalto oggi che un progresso generalizzato domani. Questa è la drammatica verità. Una verità di cui chiaramente tutti noi portiamo almeno una parte di responsabilità. Ma mai quanto quella che porta chi dovrebbe rappresentare interessi collettivi e possibilmente trovare soluzione ai nostri problemi generali. Se, come detto in altre circostanze, l’inadeguatezza è inescusabile, l’egoismo è esecrabile.
Abbiamo bisogno di uno sguardo aperto e generoso. Poco importa avere ragione se si è da soli in un deserto. Non siamo nella condizione storica di poter tergiversare appresso a vessilli di comodo, a falsi miti, a diatribe di piccolissimo cabotaggio. Non ha nemmeno senso perdere tempo appresso a unanimismi “pelosi”, sempre sospetti. Non siamo tutti sulla stessa barca e non esiste alcuna comune appartenenza etnica che possa cancellare le ingiustizie economiche e sociali: anche in Sardegna ci sono pochi che hanno tanto e molti che hanno pochissimo. Raramente questa proporzione rispetta la distribuzione statistica dei meriti e delle capacità.
La liberazione e l’emancipazione dei Sardi passano dalla riduzione drastica delle disuguaglianze materiali e culturali, dalla riappropriazione dei beni comuni, del territorio, della nostra storia, della nostra stratificazione culturale. Non come strumenti da opporre a un “altro da noi” presuntivamente ostile, da cui difenderci, ma al contrario come fattori indispensabili per dotarci di quella soggettività collettiva, sana, compiuta, consapevole che ci faccia stare al mondo a buon diritto e insieme agli altri. E che salvi noi ed altri dalla decadenza, dalla miseria e infine dall’estinzione.