In questi giorni si intrecciano due temi apparentemente distanti, ma in realtà correlati: il pericolo incombente delle scorie nucleari e sa Die de sa Sardigna. Si intrecciano anche perché evocati insieme da vari osservatori.
In particolare mi ha colpito l’appello che Salvatore Cubeddu, della Fondazione Sardinia, ha rivolto al presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau a proposito delle due questioni. Cubeddu sfida il presidente della massima istituzione rappresentativa sarda a un compito di guida e responsabilità, nella previsione che la Sardegna sia destinata dal governo italiano ad accogliere i rifiuti nucleari dell’intero stato e forse persino di stati esteri.
Il documento è significativo per l’urgenza che segnala, ossia quella di avere finalmente una classe dirigente all’altezza di tale definizione. Anche il senso della sfida lanciata è apprezzabile. Le argomentazioni utilizzate, di per sé votate al bene e sicuramente legittime, sono tuttavia mal incanalate e mal indirizzate.
Intanto noto un persistente equivoco di metodo e di contenuto. Ascrivere le necessità della Sardegna attuale così come le vicende della Rivoluzione sarda ad un ambito politico autonomista è un errore oggettivo. Sia perché la Rivoluzione sarda non ha nulla a che fare col concetto e con la natura dell’autonomia novecentesca, sia perché insistere a considerare l’istituto obsoleto e fallimentare dell’autonomia regionale come una soluzione ai nostri mali è un auspicio debole in partenza.
L’appello inoltre è mal indirizzato perché si rivolge a chi rappresenta degnamente non tanto l’eredità di Giommaria Angioy e dei rivoluzionari sardi, quanto piuttosto quella della classe dominante sarda che dalla loro sconfitta trasse legittimazione, potere e relazioni vantaggiose con il centro politico dominante (prima la Torino sabauda, poi la Roma dell’Italia unificata).
Appare sorprendente accostare in un unico philum, quasi si trattasse di una discendenza diretta, i rivoluzionari sardi, i primi autonomisti alla Tuveri e all’Asproni (ma perché non anche alla Fenu?), i grandi podatari come Francesco Cocco Ortu, la stagione autonomista novecentesca e la classe politica di questi anni. Si tratta di ambiti, personaggi e situazioni eterogenei e a volte in conflitto tra loro.
Che l’attuale classe politica sarda non abbia alcun trasporto verso i fatti rievocati con sa Die de sa Sardigna è perfettamente coerente. Come potrebbe essa amare ed evocare la propria stessa nemesi? Ed è davvero questa classe politica quella a cui appellarsi per scongiurare l’ennesima degradazione materiale e simbolica della Sardegna?
Emerge qui uno dei nostri problemi strutturali: la difficoltà della nostra classe intellettuale a farsi soggetto autonomo e voce libera rispetto agli assetti del potere. Non si può pretendere di parlare a nome del popolo sardo e al contempo essere organici all’apparato di dominio vigente. La distinzione tra classe dominante e popolo deve essere assunta pienamente, non solo come strumento di analisi storica, ma anche come distinguo politico di fondo.
Gli unanimismi di stampo nazionalista non hanno diritto di cittadinanza in una situazione in cui una parte, sia pur minoritaria, dei Sardi, trae vantaggio e legittimazione dalla nostra condizione di dipendenza e subalternità ed è chiamata a garantire la nostra soggezione. Non è a chi rappresenta tale assetto storico che si può chiedere di farsene avversario.
Molto più proficua la mobilitazione spontanea che in questi giorni si sta manifestando a proposito sia del pericolo nucleare, sia di sa Die de sa Sardigna, sia – per citare un altro ambito – per la traduzione in sardo dell’interfaccia grafica di Facebook. Esempi virtuosi di assunzione di responsabilità collettiva che prescindono da vane attese di azioni politiche istituzionali e procedono a fare direttamente il necessario, spesso in termini collaborativi e gratuiti.
Mi piace segnalare nello specifico – sempre a proposito di sa Die – la realizzazione dell’opuscolo didattico ad essa dedicato dal gruppo di lavoro sulla “Storia sarda nella scuola italiana”. Un’azione decisamente più concreta, puntuale ed efficace (sia nell’immediato sia in proiezione futura) di qualsiasi appello a esponenti politici compromessi col sistema di dominio che grava sulla Sardegna. È tempo di trarre davvero qualche insegnamento dalla nostra storia.
[A questo proposito, e partendo dalla considerazione che la storia prima di tutto vada conosciuta e affrontata a viso aperto, faccio un po’ di autopromozione avvertendo che entro poche settimane uscirà per Condaghes la traduzione in italiano e in sardo da me curate del Memoriale di Giovanni Maria Angioy, un documento prezioso e significativo che è giusto sia messo a disposizione del grande pubblico, oltre che degli studiosi. Ma ne riparleremo.]