Poco da festeggiare

Il 17 marzo 1861 il Parlamento del Regno di Sardegna stabilì che da quel momento in poi sarebbe stato il Parlamento del Regno d’Italia, conferendo dunque il titolo di re d’Italia a Vittorio Emanuele II, fino a questa data re di Sardegna (Cipro e Gerusalemme). Era la certificazione dei mutamenti avvenuti nell’ultima dozzina di anni, in seguito alle due guerre di indipendenza e alla conquista del Regno delle Due Sicilie. Era insomma la formalizzazione del processo di unificazione italiana.

Non sembra che questa data susciti particolari sentimenti di partecipazione emotiva, nemmeno nella classe dominante italiana. Sono passati gli impeti retorici del 2011. E a dire il vero da festeggiare ci sarebbe davvero poco. Dubito che si farà mai un serio consuntivo di quel che da quei fatti è derivato, fino ad oggi. In fondo, a chi giova, nel sistema cleptocratico italiano, fare domande, suscitare curiosità e senso critico? Meglio che le coscienze siano sedate e che la consapevolezza storica sia ridotta al minimo. Nel caso, ci penserà il Benigni di turno a costruire una opportuna narrativa edulcorata, per far ingoiare l’indigeribile al popolo bue. E gli spauracchi da sventolare come capri espiatori di comodo non mancano mai.

Eppure direi che almeno in Sardegna qualche domanda dovremmo farcela. Non sarà mai troppo tardi per impostare un discorso equilibrato e spassionato sugli eventi che condussero l’isola dentro l’alveo politico italiano e sulle loro conseguenze. Ci sarebbe anzi prima di tutto da interrogarsi sul perché questo tema susciti così tante resistenze in una larga parte dell’ambito intellettuale sardo.

La storia della Sardegna contemporanea è da sempre oggetto di mille cautele, omissioni, sofisticazioni retoriche. La consapevolezza che i nodi da sciogliere siano tanti e che fare piena luce su circostanze, protagonisti e processi possa avere conseguenze dirette nella sfera politica è sempre stata viva e diffusa. Tutto sommato – sia pure anche qui con qualche prudenza – molto meglio deviare l’attenzione e la voglia di identificazione collettiva su tempi lontani e incerti, su un passato oscuro, poco definibile, perciò facile preda di controversie irrisolvibili. La fissazione identitaria dei Sardi contemporanei e l’ossessione per le nostre presunte glorie protostoriche ha da sempre un ruolo di conservazione dello status quo, sia a livello sociale sia a livello politico. Persino la questione linguistica è stata abilmente spostata su questo piano, contribuendo a depotenziarla.

Così, è facile che i Sardi sappiano qualcosa sui nuraghi o – oggi – sui Giganti di Monte Prama e niente su quanto successo negli ultimi due secoli.  Proprio il periodo in cui è stata costruita la nostra mitologia etnica, a salvaguardia dei rapporti di produzione e di forza, della relazione di dominio tra stato italiano e Sardegna. A chi invoca la creazione di un mito nazionale in funzione di un auspicato riscatto collettivo dei Sardi si può dunque rispondere che tale mitologia esiste già, è stata creata tra la seconda metà dell’Ottocento e il secondo dopoguerra e coincide in larga misura con quella che si intenderebbe assemblare oggi, fatta ancora e sempre di glorie passate, di costante resistenziale, di elementi distintivi utili a ribadire la nostra diversità, o “specialità, che però ha senso solo dentro il rapporto di dipendenza vigente. Le riserve sulla mitopoiesi identitaria derivano dalla consapevolezza che essa ha ben poco di realmente emancipativo, non da un presunto disconoscimento del nostro passato.

Tutto il nostro passato è interessante e merita di essere studiato e conosciuto, tutto il nostro grande patrimonio culturale, demo-antropologico, linguistico, in relazione col paesaggio, è un fattore importante e decisivo del nostro stare al mondo. Questo si può negare solo per stupidità o mala fede. Tuttavia, per conoscere la nostra collocazione nel contesto storico e geografico odierno è più importante conoscere la nostra vicenda recente, quel che ha condotto la Sardegna alla condizione presente. Che non è la sconfitta di Ampsicora  nel 215 a.C. o quella di Sanluri nel 1409, bensì l’insieme dei fatti e delle dinamiche relazionali che ci hanno riguardato dalla fine della Sarda Rivoluzione a oggi.

Dentro questo spazio cronologico il rapporto con l’Italia inevitabilmente ha un peso determinante. Occorrerebbe affrontarlo fuori da schemi precostituiti, soprattutto rinunciando alla cornice concettuale nazionalista, alla contrapposizione tra due pretesi elementi oppositivi permanenti: “noi” e “loro”. Cornice che serve poco, dal punto di vista della corretta ricostruzione storica ed anche come base di discussione politica. La nostra storia contemporanea è molto più una storia di lotta di classe – sia pure con i suoi tratti peculiari – che di contrapposizione nazionalista. In ogni caso negare la centralità della modernizzazione e dell’imposizione dei modelli capitalisti in Sardegna sarebbe davvero miope.

Naturalmente gli aspetti da considerare sono tanti, compreso quello del contesto internazionale. Ad esempio è difficile capire la Sardegna degli ultimi settant’anni fuori dal gioco geopolitico della Guerra fredda e dei nuovi assetti post caduta del muro di Berlino. Lo stesso impoverimento economico e demografico dell’isola – a dispetto dei Piani di Rinascita e amenità annesse e connesse – si inquadra molto bene dentro gli schemi dello sfruttamento delle risorse, dei territori e delle popolazioni così come generato dal trionfo del meccanismo capitalista in alleanza con la sfera politica, impostosi dagli anni Ottanta del secolo scorso in poi.

Chi e come ha tratto vantaggio in Sardegna dal rapporto di dominio e dalla subalternità a cui siamo stati condannati nei centocinquant’anni circa di appartenenza allo stato italiano? Anche questa è una domanda che meriterebbe di trovare risposta, se si vuole alimentare una coscienza collettiva che non sia facile preda di miti tecnicizzati e manipolazioni politiche.

Usare le categorie della riflessione post-coloniale aiuta, ma naturalmente tale analisi va calata correttamente nell’ambito su cui si applica e l’ambito sardo ha bisogno di essere conosciuto meglio, in troppe sue componenti. Servirebbe una storia economica e sociale della Sardegna contemporanea, così come una storia culturale e delle mentalità. Una sana dose di cultural studies non ci farebbe affatto male, fuori dalle cornici della scuola antropologica dei Cirese e De Martino e loro allievi sardi. Approccio quest’ultimo pure importante e certamente irrinunciabile, che però alla lunga si è rivelato insufficiente, a volte persino controproducente, e oggi  in gran parte superato.

Che i nodi da sciogliere esistano e siano anche piuttosto aggrovigliati è dimostrato dalla stessa reticenza con cui le istituzioni sarde celebrano la nostra appartenenza italiana. Lo fanno se costrette e sempre al riparo di una retorica para-nazionalista, centrata sulla nostra specialità. Non so se oggi qualcuno, a livello politico ufficiale, si cimenterà in qualche dichiarazione rievocativa del 17 marzo 1861. È probabile che non avverrà. La realtà incalza, con i suoi problemi, e le armi retoriche da utilizzare sono altre.

Eppure chi oggi governa la Sardegna e la classe dominante a cui fa riferimento avrebbero di che essere grati al processo della nostra normalizzazione italiana. È da lì che traggono legittimità sociale e politica, nonché naturalmente vantaggi materiali. Pensiamoci, quando ci sentiamo attratti dalla retorica nazionalista, dal facile gioco di specchi per cui il male viene sempre da fuori e i Sardi ne sono sempre tutti, indistintamente e allo stesso modo, vittime. È una retorica che non modifica in nulla la nostra condizione subalterna ed è invece utile a perpetuarla, sia pure in forme aggiornate. Se serve a renderci vigili sul nostro presente e a farci interrogare sul “che fare?”, più che ad alimentare nostalgie inutili, ben venga dunque anche il ricordo della proclamazione del Regno d’Italia.

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