La tendenza sociale e demografica in corso è nota. La Sardegna si sta impoverendo sia quanto a risorse economiche sia quanto a popolazione. L’impoverimento culturale a sua volta è legato ai primi due in un circolo vizioso deleterio.
La politica istituzionale, che rappresenta circa la metà della popolazione residente e che, nella maggioranza che governa, ne rappresenta tra un quarto e un quinto, ha come scopo quello di garantire tale deriva, non altro. Il che va al di là spesso delle intenzioni dei singoli esponenti di questa o quella forza politica.
È un problema molto serio ma non del tutto contingente. Sono contingenti alcune sue manifestazioni attuali, ma si tratta di un processo che in molti suoi aspetti è di media e lunga durata. Dal punto di vista dell’analisi e della ricostruzione storica siamo tremendamente in ritardo. Per affrontare la situazione usiamo strumenti obsoleti, lacunosi e a volte persino controproducenti.
Se la responsabilità maggiore di questa debolezza politica diffusa è da imputare alla classe dominante sarda, in tutte le sue varie articolazioni, bisogna anche considerare che essa non ha mai trovato una opposizione consistente e robusta, sia in termini quantitativi che soprattutto qualitativi.
Il discorso proposto da Gulio Angioni sul manifesto sardo di qualche giorno fa tocca a tal proposito uno dei nodi salienti. Negli ultimi cento anni la questione della dipendenza e della subalternità della Sardegna è stata affrontata malamente e dunque con esiti desolanti.
L’equivoca natura teorica del sardismo ha prodotto frutti amari, se non velenosi. Le sue derivazioni, compresa quella indipendentista (assumendola qui come un unicum, per comodità del discorso) non è riuscita a liberarsene del tutto, anzi in qualche caso ha persino peggiorato la situazione.
Una delle ragioni di questa debolezza è puntualmente segnalata da Angioni:
I processi di legittimazione di politiche e pratiche gerarchizzanti si avvalgono di logiche non meticce per affermare e rafforzare unicamente logiche di dominio politico ed economico. Logiche che ritroviamo spesso anche nei gruppi assoggettati o minoritari quali forme di autodifesa collettiva, per cui si accetta e si introietta lo sguardo esterno essenzialista per rivendicare la propria diversità etnica o culturale, le cui origini vengono fatte sconfinare nei secoli e nei millenni della storia, quando non anche della preistoria, fino a presentarle come connaturate da tempo immemorabile al proprio gruppo.
Angioni si rifa ad Amselle e alle sue “logiche meticce” per sollevare il velo su un fenomeno deleterio della nostra storia contemporanea. La Sardegna ha subito “politiche e pratiche gerarchizzanti” almeno negli ultimi centocinquant’anni (ma in realtà da prima, sotto i Savoia). La nostra minorizzazione culturale e la costruzione del nostro mito identitario sono evidenze storiche a cui non si può sfuggire e sono strettamente legate alla nostra sottomissione economica.
Nondimeno, in tali processi c’è il nostro stesso zampino. Proprio perché, come “gruppo assoggettato e minoritario” nell’ambito dello stato unitario italiano, abbiamo accettato e introiettato “lo sguardo esterno essenzialista” per rivendicare la nostra “diversità etnica o culturale”.
In altre parole, il fondamento della resistenza e dell’opposizione alla dipendenza è consistito nel rivendicare come nostra la cornice essenzialista (razzista) applicata su di noi dal dominatore. Tutto il discorso del riscatto e dell’emancipazione collettiva dei Sardi è stato ricondotto dentro questo orizzonte culturale o culturalista. Da qui le varie versioni del nostro discorso identitario, le costanti resistenziali, le declinazioni specifiche della “vera sardità”.
In tal modo sono stati lasciati fuori altri aspetti della nostra condizione storica, che invece sono ben più determinanti. In primis le relazioni sociali, i rapporti di produzione, i fondamenti concreti della gerarchizzazione sociale a cui è stata condannata l’isola col processo di modernizzazione dall’alto, che ha subito a ondate negli ultimi duecento anni.
Di questi non si è mai preoccupata la sinistra di matrice italiana, pure piuttosto forte in Sardegna dal secondo dopoguerra fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Sinistra di matrice italiana che ha anzi avallato il processo di minorizzazione culturale e di modernizzazione forzata (per fiducia sincera o presumendo di trarne vantaggio). Ora di questo ambito politico rimangono sparuti scampoli, per lo più cooptati nel sistema di potere post-ideologico italiano (berluconiano-renziano).
Gli ex democristiani, liberali, repubblicani, ecc. sappiamo che fine hanno fatto: anche loro tutti al caldo dentro i nuovi agglomerati di stampo italico che dominano la scena da un ventennio buono. Non merita nemmeno di chiamarli in causa.
Le uniche possibili alternative negli ultimi quarant’anni (lasciando perdere il presente) sono state l’indipendentismo post-colonialista degli anni Settanta-Novanta e in parte la prima esperienza di Renato Soru con Progetto Sardegna. In entrambi i casi si fondava la soggettivizzazione storica dei Sardi su elementi nuovi e alternativi al sistema di potere vigente, sia pure su basi diverse.
Entrambe le soluzioni sono state in seguito normalizzate e sono rientrate nei ranghi. Lo stesso indipendentismo cosiddetto “moderno”, a partire dagli anni Duemila, alla fine si è rivelato in buona parte una costruzione ideologica conservatrice e tributaria del sardismo e della cornice culturalista ed etnica.
Oggi il ripiegamento è evidente e la patina di novità, molto sbiadita, lascia intravedere posizioni banalmente nazionaliste, senza gran che da dire, a parte qualche slogan, sulle questioni portanti, strutturali, strategiche. Quando non si è trasformato in “sovranismo”.
Su quest’ultimo esito si può dire dell’altro. La possibile esistenza di un terzo polo politico di tipo sovranista si rivela come una sorta di inganno malefico: niente di particolarmente edificante o potenzialmente emancipativo.
Ha ragione da vendere Andrea Pubusa nel riscontrare in quell’ambito il puro e semplice opportunismo di chi si riempie la bocca di parole rivoluzionarie solo per sedersi un po’ più comodamente alla tavola della classe dominante, mutuandone ed anzi esaltandone metodi e obiettivi.
Tuttavia, nonostante queste obiezioni (quelle di Giulio Angioni e quelle di Andrea Pubusa), bisogna anche ammettere che qualcosa di nuovo è emerso nello scenario sardo contemporaneo.
Si è verificata una certa presa di coscienza da parte sia di una fetta non inconsistente di cittadini di varia estrazione sia persino di una parte della classe dirigente (in senso lato). Un punto di svolta – come già segnalato – era stata la campagna anti-nucleare del 2003. Da lì in poi, trasversalmente agli schieramenti e alle classi sociali, si è precisata la percezione della nostra condizione storica deficitaria e se ne sono riconosciute le cause, almeno in generale.
Non c’è ancora una definizione precisa di questo variegato ambito sociale, culturale e politico, ma è chiaro che esistono già oggi dei valori largamente condivisi e una certa consapevolezza dei problemi. Non è un caso se alle ultime elezioni regionali un soggetto nuovo e variegato come Sardegna Possibile ha conquistato dal nulla 76mila voti.
Questo segnale non è stato colto, a quanto pare. Il sardismo, buona parte dell’indipendentismo, l’area cosiddetta sovranista e altre componenti sparse di carattere prevalentemente culturale si ritrovano concordi sull’intenzione di porre come elemento dirimente di un discorso alternativo al sistema dei partiti italiani la retorica della nazione dominata che si riappropria di sé, del proprio passato (ricostruito alla bisogna), della propria identità.
Non si fa appello al sangue e all’etnia, perché suonerebbe male, ma in realtà questo aspetto è appena appena attenuato. Il problema è che “l’unione di terra e sangue può solo far venire il tetano”, come diceva Karl Krauss. Poco importa se al posto di “sangue” vengono usati termini apparentemente meno forti (“lingua”, “glorie passate”, “identità”, o chissà cos’altro): siamo in quei paraggi.
Sullo stesso terreno è anche del tutto inservibile, dal punto di vista emancipativo e liberante, fare appello ancora a unioni indipendentiste, blocchi nazionali o altri concetti analoghi (per altro decisamente inquietanti, per gli echi di tipo fascista o reazionario che rimandano).
Le rivoluzioni si fanno rappresentando e proiettando nello scenario politico forze reali che animano le relazioni sociali e i gruppi di interessi esistenti, non facendo appello ad appartenenze astratte e autoproclamandosene portatori esclusivi. Se la preoccupazione fondamentale è “dire bene” qualcosa di indipendentista, temo che la prospettiva dell’indipendenza politica della Sardegna rimarrà un’utopia (e, per chi le è ostile, una confortevole minaccia al vento).
Del resto, fare proprio dall’ambito politico italiano l’amore per la tattica e per le negoziazioni tra leadership autoreferenziali è un peccato mortale per qualsiasi progetto politico che si dichiari e voglia essere liberatorio. Bisogna differenziarsi anche nei metodi, per potersi dire – prima ancora che per essere realmente – rivoluzionari.
La questione fondamentale non è dunque tanto l’indipendenza della Sardegna (che rimane una soluzione giuridico-politica possibile, ma di cui occorre comprendere tutti i risvolti, come giustamente dice Andrea Pubusa), quanto il “che fare?” ora e nei prossimi anni. E non solo il “cosa” ma anche il “come”.
Questi sono gli elementi discriminanti tra le possibili posizioni politiche, non le categorie astratte senza referente concreto o le formule retoriche. Il problema dell’indipendenza, quando si porrà concretamente, si porrà per forza propria, per necessità storica stringente, e ci chiamerà ad esserne all’altezza.
Le vere discriminanti, oggi come sempre, rimangono le care vecchie questioni concrete: rapporti di forza, modelli produttivi, diritti, eguaglianza, qualità della vita, beni comuni, democrazia, inclusione sociale, salvaguardia del paesaggio e dell’ecosistema, ecc. Quelle insomma su cui valgono ancora, a dispetto di certo discorso post-ideologico interessato, le categorie storiche e politiche di destra e sinistra, o di conservatorismo e progressismo, o analoghe, su cui si manifestano le distanze tra i valori di riferimento, gli obiettivi, le priorità.
Naturalmente – bisogna precisarlo anche se dovrebbe essere superfluo – con tale discorso non ha nulla a che vedere l’appartenenza agli schieramenti di centrodestra e centrosinistra così come esistenti nel sistema partitico italiano.
E rimangono inevitabilmente sul tappeto le questioni geopolitiche, così sbrigativamente evase da molti esponenti politici sardi di tutti gli schieramenti, o ignorandole, o affidandosi a schemi e retoriche altrui (dunque inservibili nel nostro caso specifico), o asservendole direttamente a interessi e disegni esterni.
Le relazioni internazionali contano quanto la visione dei possibili modelli socio-economici da perseguire, nel discorso dell’emancipazione economica, sociale e culturale della Sardegna, che ci piaccia o no. Non è un mondo tranquillo, quello in cui ci troviamo a vivere, bisogna tenerne conto, senza farsi troppe illusioni.
In definitiva, bisogna sgomberare il campo dagli equivoci e dai giochi di potere mascherati da battaglie ideali e costruire un discorso politico che tenga conto dei fattori storici reali, delle forze in campo, di obiettivi a media e lunga scadenza, senza trascurare l’oggi. Occorre ridisegnare l’offerta politica sarda su basi proprie, con un occhio al contesto interno e uno a quello internazionale, fuori dalla logica familistica, autoritaria, razzista, ipocrita e cialtrona cui ci ha abituato un secolo e mezzo di Italia.
È possibile farlo, se impariamo ad ascoltare e a mettere in campo il conflitto, affrontandolo, svelandolo dove esso sia nascosto, facendone un elemento di crescita culturale. E anche facendo tesoro della nostra stratificazione storica. Non in modo discriminatorio ma secondo appunto una “logica meticcia”, che non rinunci a nulla della ricchezza culturale accumulata senza però farne un fattore di distinzione etnica o di mascheramento ideologico delle questioni reali.
I feticci ideologici e i metodi opachi non contribuiranno mai in nessun modo alla nostra salvezza, così come non contribuiranno di certo il disconoscimento delle ragioni altrui o le pretese purezze identitarie. In un mondo adulto, se si sbaglia, si deve sbagliare da professionisti, non da mezze calzette precipitate in un gioco troppo più grande di noi. Non rimane molto tempo per darci una mossa.
Intanto sono già state scelte le sedi per lo stoccaggio delle scorie radioattive, e manco a farlo a posta la Sardegna ha vinto, in qualcosa riusciamo ad essere primi in Italia e forse anche in Europa, evviva!!
Assieme a noi il Lazio, ma è tutta gazzosa, all’ultimo i poteri forti romano-laziali faranno la loro parte e resteremo noi, una sola regione al comando! abbiamo distanziato tutte le altre… altri veleni, tanto veleno più veleno meno…
a me fa incazzare questa indolenza! però cosa posso fare?
voto indipendentista, ma mi pare che il mio voto valga poco, a quanto pare è vero che i voti si pesano e i nostri sono leggerissimi
ho l’impressione che l’indolenza sia anche dovuta a questa consapevolezza che comunque non si riesca a decidere del nostro futuro
è una mia impressione?