L’elemento narrativo delle continue dominazioni, cui i Sardi si sarebbero dovuti piegare nel corso dei secoli, è una pietra miliare della nostra identificazione collettiva. Il nostro mito identitario si fonda in larga misura su di esso, sia nella sua versione più autocolonizzata (quella secondo cui siamo ineluttabilmente dei perdenti della storia), sia in quella edulcorata, ma non meno subalterna, della costante resistenziale.
Questo luogo comune è talmente radicato, che anche i tentativi di reinterpretazione delle nostre vicende spesso si concentrano sulla sua negazione, facendone l’unica chiave di lettura possibile. Bisognerebbe però liberarsi di questa cornice concettuale così limitante.
Si può e si deve guardare alla nostra lunga parabola storica analizzando altri fattori, tenendo conto delle circostanze concrete, dei rapporti sociali e culturali in gioco di volta in volta, delle articolazioni interne alla collettività sarda nelle varie epoche.
I primi dominatori citati di solito sono i Fenici. Questi abili navigatori, emersi alla luce della storia nell’Età del ferro, probabilmente non si sognarono mai nemmeno lontanamente di diventare dopo tre millenni una fonte di diatribe storiche.
Quali che fossero le loro origini o la loro composizione etnica, i Fenici entrarono in contatto con una Sardegna che non era certo deserta né chiusa ai traffici. Tutto si può dire di loro, poi, tranne che si trattasse di feroci imperialisti, assetati di conquiste.
Del resto non rappresentavano una entità politica definita, tanto meno una potenza militare. Non sembra che i loro rapporti con gli antichi Sardi siano stati conflittuali. Anzi, il fatto che in tombe “fenicie” siano stati trovati resti di Sardi, per altro con corredi che attesterebbero un alto lignaggio, fa supporre legami stretti, anche di natura parentale, e un tipo di relazione come minimo paritetico tra autoctoni e forestieri.
In cosa consiste dunque il problema rappresentato dai Fenici? Fondamentalmente nell’ostinazione con cui a lungo si è attribuita a loro la prima vera civilizzazione della Sardegna e l’equivoco circa la loro presunta dominazione dell’isola.
Oggi, benché molte pagine debbano essere ancora scritte in materia, possiamo ormai escludere che tale dominazione ci sia stata. Possiamo di contro problematizzare di più ciò che avvenne tra X e VI secolo a.C. Possiamo farci un’idea più articolata circa le strutture produttive, sociali e culturali di questa lontana epoca.
Esclusi i Fenici dal novero dei nostri dominatori, subito dopo di loro nell’elenco si presentano all’appello dei loro parenti più o meno stretti, i Cartaginesi.
Con Cartagine c’è poco da scherzare, la sua dominazione sulla Sardegna sembra assodata e fatta risalire addirittura alla fine del VI secolo a.C. Ne farebbe fede il trattato tra la stessa Cartagine e Roma siglato nel 509 a.C., secondo lo storico Polibio.
Questa notizia non gode più di grande credibilità, presso la storiografia attuale, propensa invece a dare più credito a quella, offerta dallo stesso Polibio, relativa ai trattati tra Cartagine e Roma stipulati nella seconda metà del IV secolo (tra 338 e 306, e addirittura un patto di alleanza nel 279, contro Pirro, nemico comune).
Limitare la narrazione dell’egemonia cartaginese in Sardegna dentro la cornice della “dominazione” appare però fuorviante. Aleggia qui lo spettro dell’anacronismo. Condizionati dalla familiarità con formule giuridico-politiche e con rapporti di forza di stampo moderno, a volte ne estendiamo più o meno consapevolmente la vigenza anche ad epoche diverse e lontane.
Sarebbe invece interessante immaginare come i Sardi del IV secolo vedessero i loro rapporti con i Cartaginesi.
Tutto sommato sembrerebbe che le classi dominanti sarde dell’epoca non abbiano rifiutato il protettorato commerciale e politico cartaginese. Le città costiere dell’isola subirono trasformazioni notevoli in questa fase, crescendo in rilevanza e in ricchezza.
Non è detto che queste circostanze fossero vissute come una dominazione straniera, da parte di molti Sardi. Probabilmente allora si approfondirono differenze di tipo economico e sociale, nonché tra una zona e l’altra dell’isola.
La dialettica interna, tra gruppi sociali e tra aree più o meno contigue, dovette dipendere molto più da questioni materiali che da rivendicazioni politiche di tipo etnico.
Il sincretismo culturale e religioso, la condivisione di usi e mode dovevano attenuare significativamente l’estraneità tra le popolazioni autoctone e la comunità di stranieri stabilitasi in Sardegna. Matrimoni misti e rapporti di affari creavano mescolanze e meticciati, facilitando l’assimilazione degli apporti umani esterni.
Più difficile trovare elementi di dubbio circa i rapporti tra la Sardegna e Roma. Sappiamo del cinismo con cui quest’ultima approfittò delle conseguenze della prima guerra romano-punica per intervenire in Sardegna e dichiararla un proprio possedimento.
Non fu però un possesso tranquillo e nemmeno tanto sicuro per un bel pezzo. È indubbio comunque che il rapporto con Roma fu un rapporto di dominazione, tanto che in questo caso vi che vi furono reiterati episodi di ribellione, se non di vera guerra aperta.
Tuttavia l’aspetto “resistenziale” di tale rapporto è stato fin troppo enfatizzato, nel nostro mito identitario. È un problema nostro, più che dei Sardi che abitarono l’isola tra III secolo a.C. e V secolo d.C. E d’altra parte, alzi la mano chi, tra Armenia e penisola iberica, non fu dominato dai Romani in quell’arco di tempo.
Risalendo il corso della storia sarda, ci imbattiamo di continuo in situazioni di rapporto più o meno conflittuale con vari protagonisti della storia europea e mediterranea. Questa costante storica viene affiancata sempre con un altro paradigma del nostro mito identitario, quello dell’isolamento.
È abbastanza strano contemplare nella stessa narrazione le continue dominazioni subite e il costante isolamento. La contraddizione è evidente. Eppure lo stigma delle continue dominazioni imperversa.
Pensiamo alla facilità con cui si parla di Sardegna “pisana e genovese” (pisana E genovese, insieme!). Qui spesso si sfiora la falsificazione storiografica. Dubito fortemente che buona parte dei Sardi, tra IX e XIII secolo abbia mai potuto sospettare di essere dominata da altri che non fossero le dinastie giudicali, qualche vescovo o le famiglie altolocate del tempo (autoctone o variamente imparentate con loro pari stranieri che fossero).
Il dominio pisano, circoscritto quanto a cronologia e territorio a pochi decenni e al massimo a circa metà dell’isola, fu un aspetto tutto sommato complementare e se vogliamo critico della parabola storica giudicale, non una condizione strutturale di lunga durata né di portata così significativa da certificare un rapporto di dominio.
Sappiamo bene quali fossero i nodi che stavano arrivando al pettine nel XIV secolo. In quel momento Pisa era già definitivamente ridimensionata nel suo peso economico e politico. La Sardegna si trovò coinvolta in un conflitto internazionale per l’egemonia sul Mediterraneo occidentale e riuscì a ritagliarsi un suo ruolo di peso.
Tanto di peso da tenere in scacco a lungo, fino a logorarne la forza, una delle potenze più dinamiche e in espansione dell’epoca: il Regno di Aragona catalano. Eppure, anche qui, è fin troppo facile imbattersi in testi che descrivono il XIV secolo sardo come il primo della dominazione… spagnola.
La Sardegna sconfitta dai Catalano-aragonesi (ormai a dire il vero non più molto catalani, dopo il 1412) divenne davvero spagnola solo più tardi.
Non era stato certo facile per i Sardi il passaggio dagli ordinamenti giudicali a quelli feudali iberici, né essi accettarono di buon grado questa sorte, se è vero che a cinquant’anni di distanza dalla definitiva scomparsa del Giudicato di Arborea (1420) videro bene di ribellarsi in massa alla prima occasione (sotto le insegne di Leonardo Alagon).
Solo con Filippo II, dalla seconda metà del XVI secolo, la centralizzazione burocratica dell’immenso impero spagnolo si tradusse in una “castiglianizzazione” diffusa, dal punto di vista culturale e linguistico. Tale fenomeno interessò inevitabilmente anche la Sardegna.
Il Regno di Sardegna spagnolo non fu il mostro di decadenza, isolamento, arretratezza a cui siamo abituati a pensare al suo proposito. Ma questo è il meno. Probabilmente sarebbe necessario rivedere anche la nozione – ancor più radicata – della sua corrispondenza esclusiva a un rapporto di dominio.
La Sardegna spagnola fu tante cose, in realtà. Fu un regno a sé stante, con proprie istituzioni, propri rappresentanti nel Consiglio d’Aragona, proprie necessità, ecc. Aveva una pessima classe dirigente, questo è innegabile.
Tra nobili ottusi e rapaci e consorterie affaristiche delle città, chi godeva di vantaggi sociali non si faceva molti scrupoli allora a saccheggiare le risorse sarde per il proprio tornaconto. Scandali e ruberie legati agli appalti pubblici erano una costante. Le comunità infeudate dovevano difendersi strappando ai baroni (o più spesso ai loro rappresentanti, i podatari) condizioni meno oppressive riguardo al versamento dei tributi e alle corvée.
Non risulta però che i Sardi in epoca spagnola si considerassero un popolo dominato. La sconfitta subita nel XV secolo era stata metabolizzata, il problema non era il rapporto diseguale tra una presunta nazione sarda e un dominatore straniero, ma caso mai era più propriamente di natura sociale, tra classi subalterne e classi dominanti.
Quando una parte dell’aristocrazia sarda pretese più potere sull’isola, nella seconda metà del XVII secolo, si arrivò persino all’uccisione del viceré (un delitto di lesa maestà, a tutti gli effetti). Chi si preoccupava di una possibile rivolta generalizzata dei Sardi al seguito dei congiurati, rimase sollevato nel constatare lo scarso ascendente di questi fatti sulla popolazione isolana.
Probabilmente i nobili ribelli, che per le loro azioni finirono poi giustiziati, non avrebbero fatto una fine molto migliore se fossero caduti nelle mani dei loro vassalli, se a questi fosse stata data la libertà di agire secondo i propri intendimenti.
Nemmeno i rivoluzionari sardi tra fine Settecento e primi dell’Ottocento ritenevano di doversi liberare di un dominio straniero. Benché l’odio verso i Piemontesi fosse diffuso e radicato, quel che si proponevano i leader più radicali della rivoluzione era un rovesciamento politico e sociale. Per raggiungere tale scopo erano persino disposti a mettersi sotto la protezione (che non sarebbe stata disinteressata) della Francia.
Del resto, la Sardegna era un regno, i Sardi una collettività storica unanimemente riconosciuta come tale. Il nemico era il governo sabaudo, non tanto in quanto formato prevalentemente da stranieri, ma in quanto oppressore. Non c’erano né avevano senso allora rivendicazioni di tipo propriamente indipendentista.
Tali rivendicazioni hanno ragion d’essere solo nell’ultimo secolo e mezzo, dopo l’unificazione italiana. Un problema di dipendenza e di dominio si pone in modo esplicito e compiuto solo in tale contesto.
Le modalità stesse del declassamento dell’isola a regione italiana, in una condizione marginale, periferica e subalterna, indicano nell’epoca contemporanea quella dove si può parlare a pieno titolo di dominazione.
E tuttavia anche in quest’epoca sono esistiti ed esistono Sardi che a buon diritto hanno potuto escludere di essere dominati, anzi hanno potuto eludere del tutto il problema della nostra dipendenza penalizzante, derubricando le istanze di autodeterminazione a fenomeno marginale.
Chi appartiene all’attuale classe dominante sarda non può considerarsi penalizzato dal rapporto diseguale tra Sardegna e Italia: da quello anzi trae solo vantaggi. Pensiamo a chi oggi governa l’isola, alla classe politica sarda presente nelle istituzioni, a buona parte del ceto intellettuale (specie accademico), all’alta burocrazia pubblica, al mondo delle professioni che vi ruota intorno, ai portatori di grandi interessi privati: si tratta di gruppi sociali variamente intrecciati tra loro che dalla dipendenza hanno avuto e hanno ancora tutto da guadagnare.
In fondo, alla sedicente classe dirigente sarda fa comodo il discorso delle dominazioni, sia che serva a ottundere le aspirazioni a conquistare una nostra soggettività storica collettiva (i Sardi per loro natura meritano di essere sottomessi e non c’è modo di eludere questa costante storica), sia che serva a sviarne i termini programmatici e gli obiettivi concreti (non sono le diseguaglianze sociali, la sfruttamento indiscriminato delle nostre risorse a vantaggio di pochi, a dover essere combattuti, bensì bisogna riscattare l’orgoglio collettivo dei Sardi in quanto nazione, possibilmente senza cambiare nulla nei rapporti di forza attuali).
Ecco quindi che lo stesso discorso dell’autodeterminazione, anche nell’epoca attuale, assume i contorni della dialettica o del conflitto sociale, più che della contrapposizione etnica.
Anche qui dunque si mostra nella sua vera essenza un feticcio da abbattere. È quello dei Sardi, assunti come un tutt’uno, che devono guardarsi dagli stranieri, quello della Sardegna buona ma derelitta contro l’Italia cattiva e prepotente (o contro l’Europa, che non si capisce mai cosa voglia dire, o magari contro gli immigrati e/o gli “zingari”).
Che il nostro rapporto con l’Italia sia conflittuale (soprattutto da parte della classe dirigente italiana) non c’è dubbio. Ma non faremo un solo passo verso la nostra autodeterminazione se non ci renderemo conto che la maggior parte dei problemi che abbiamo li abbiamo in casa nostra.
Solo all’interno di una dialettica sociale, culturale e politica pienamente attivata ha un senso il percorso di autodeterminazione. E, reciprocamente, senza il discorso dell’autodeterminazione le stesse lotte sociali e le speranze di crescita culturale sono destinate a fallire o ad essere – come sono state fin qui – fondamentalmente uno strumento per mantenere lo status quo.
I partiti italiani di sinistra e i sindacati confederali in questo hanno avuto una responsabilità storica enorme, più grande e più grave di quella avuta da altre componenti sociali e politiche.
Forse, per far progredire il dibattito storico e politico, meriterebbe di essere affrontato meglio questo discorso, piuttosto che quello ormai stantio e del tutto pretestuoso delle nostre dominazioni.