I problemi strutturali della Sardegna sono noti. Riguardano fattori determinanti per la nostra vita, non si possono eludere. Ci si potrebbe chiedere, allora, il motivo della loro persistenza senza soluzioni, anzi, con una tendenza evidente all’aggravamento.
Noto che di solito, allorché qualche effetto macroscopico di tali problemi emerge all’attenzione delle cronache, le reazioni si incanalano dentro schemi rigidi e ricorrenti. La politica istituzionale sarda nega la propria responsabilità e la riversa all’esterno (sul governo italiano, sulla legislazione statale, su altri soggetti giuridici o economci, sull’Europa). A quel punto alcuni osservatori avallano tale lettura delle cose e spostano il focus della questione sulle inadempienze altrui ai nostri danni. Alcuni altri, a contrasto, stigmatizzano queste prese di posizione come stupidamente e astrattamente indipendentiste, sostenendo che i problemi sardi sono dovuti a nostre carenze congenite insuperabili. Alla fine il problema rimane tale, ma ormai spostato di lato o sullo sfondo. Il dibattito si accende su aspetti secondari o accessori o su falsi bersagli. Ben presto un’altra emergenza prende il posto di quell’altra e si ricomincia da capo, senza che il problema reale sia stato nemmeno affrontato.
La mancanza di iniziativa, di senso di responsabilità e di capacità politica dei partiti dominanti in Sardegna sono loro caratteristiche intrinseche. Non dipendono dalle circostanze o dalle singole persone che in un momento o in un altro occupano questo o quel ruolo. È la selezione a monte del personale politico a determinare questa debolezza sistemica, sono le logiche a cui risponde, gli interessi che deve garantire.
Siamo talmente abituati all’inadeguatezza della politica sarda che molti reputano pericoloso qualsiasi percorso di autodeterminazione con l’argomento che non abbiamo una classe dirigente in grado di gestirlo, dato che non riusciamo nemmeno a gestire la blanda autonomia di cui disponiamo. Naturalmente è un paralogismo, un ragionamento fallace. La classe dirigente sarda attuale è mediocre proprio perché viene selezionata per non essere all’altezza, dentro un quadro di dipendenza e subalternità che essa deve perpetuare (anche nel proprio interesse, chiaramente).
Affrontare come si deve i nostri problemi strutturali non ha a che fare col discorso dell’indipendenza. Il discorso dell’indipendenza sta su un livello giuridico-formale-diplomatico che è ulteriore rispetto alla qualità della politica, alle sue scelte di amministrazione e di gestione della cosa pubblica. La vera differenza politica in Sardegna non la fanno le appartenenza nominali a questo o a quel partito o ambito ideale, ma i valori praticati, i soggetti a cui si risponde del proprio operato, gli obiettivi concretamente perseguiti.
Il discrimine più profondo è tra una visione politica che mette la Sardegna e i Sardi al centro della propria azione, con un approccio generoso, democratico, di largo respiro, aperto verso il mondo, e dall’altra parte una visione, una prassi e degli obiettivi che vedono nella Sardegna e nei Sardi dei meri oggetti delle proprie scelte. In questo secondo campo possono esserci anche sedicenti indipendentisti, partiti sardi e partiti italiani, grumi di interessi locali ed esterni: ciò che li accomuna è la ricerca del potere per raggiungere i propri scopi, e basta.
Sostenere che i problemi strutturali della Sardegna dipendono da sogetti e forze esterne, su cui non abbiamo alcun potere, è sia un vezzo di alcuni settori dell’indipendentismo (che fanno dell’indipendenza stessa la panaca di ogni male) sia una scappatoia di comodo per la politica istituzionale. In tale gioco delle parti, queste due componenti politiche si sostengono l’una con l’altra, pur essendo nominalmente su fronti opposti. Chi è votato a preservare lo status quo e chi in tale status quo ha ricavato una sua nicchia di indentificazione (sia pure oppositiva rispetto agli assetti dominanti) hanno il medesimo interesse a riconoscersi vicendevolmente e a non cambiare nulla.
Usare slogan, vezzi retorici, atteggiamenti stereotipati e sempre solo sulle stesse medesime questioni, è un grave elemento di debolezza dell’indipendentismo sardo. È una trappola in cui ci si è fatti rinchiudere. Una trappola confortevole, se lo scopo è mantenere la propria appartenenza astratta e non invece cambiare lo stato delle cose.
Occorrerebbe invece un approccio mirato sui problemi, non sulle posizioni retoriche. Se alcuni temi e alcune modalità del discorso politico suonano come indipendentisti, è solo perché siamo così abituati alla dipendenza e alla passività, che ogni proposta semplicemente libera, centrata sul problema, non legata a interessi o a vincoli di potere esterni suona come rivoluzionaria, quando invece, in una condizione politica sana, sarebbe semplicemente giusta.
I trasporti sardi sono penosi non perché siamo un isola, né perché lo stato italiano è cattivo, ma perché la politica sarda non si è mai posta il problema di dotare l’isola di un sistema di trasporti efficente, sia al suo interno sia verso l’esterno. Anni e anni di subalternità ai grandi interessi difesi dai governi italiani (da cui i partiti dominanti sull’isola dipendono) hanno prodotto il disastro attuale. Ma si poteva e si potrebbe fare diversamente.
la questione energetica e le speculazioni rapaci che stiamo subendo in quest’ambito non dipendono da nient’altro che non siano le scelte della nostra classe politica (regionale e locale), che non ha mai provveduto a dotarci di un piano energetico regionale, non ha mai messo in chiaro quali siano le esigenze della Sardegna e le modalità di soddisfarle, non ha mai risposto ai Sardi delle proprie decisioni o non decisioni.
Idem per la scuola e l’università. Il disastro attuale non è frutto del caso o della crisi o del governo. I governi italiani degli ultimi vent’anni ci hanno messo del loro, è vero. Ma la politica sarda cosa ha fatto in merito? E le stesse istituzioni universitarie sarde (o italiane in Sardegna, meglio), che metodi hanno adottato, che obiettivi si sono date?
Sostenere che in queste e in altre materie sia necessario un ribaltamento dei paradigmi, una visione centrata sulla Sardegna, sui suoi problemi strategici, sulla sua gente, è un discorso indipendentista, o è invece un discorso di semplice buon senso? Per quale arcana ragione solo a noi dovrebbe essere vietato perseguire i nostri interessi generali? Perché nel nostro caso devono sempre prevalere interessi e scopi esterni, o particolari e privati, o di bassa spartizione e clientelismo? È indipendentista sostenere che si possa e si debba fare politica in modo diverso, o è solo, come credo, il minimo sindacale?
Naturalmente, se non si vince il tabù della nostra mancata soggettività storica, ci si incarta in ragionamenti senza via d’uscita. Ostinarsi a vedersi come una “regione al pari delle altre” o dichiarare la propria italianità e dunque la propria partecipazione (del tutto teorica) ai processi economici, sociali e politici italiani è un equivoco duro a morire. In questo, chi ha maturato una prospettiva indipendentista può essere avvantaggiato. Ma solo in termini di approccio generale. Essere indipendentisti non garantisce di appartenere a una schiera di eletti e non conferisce nemmeno la qualifica di ben intenzionati. Non sta lì il nodo.
Non c’è quasi niente di ciò che ci affligge di cui noi non possiamo farci carico. Se non lo facciamo è perché non lo vogliamo. Non c’è stereotipo mortificante che tenga. Chi propala le scemenze autocolonizzate a cui siamo tanto abituati lo fa per puro interesse egoistico o per stupidità. Chi ci crede è perché non vuole assumersi alcuna responsabilità. Abbiamo perso da tempo il diritto di lamentarci come anche quello di chiedere aiuto ad altri. E non sarà certo l’elezione di un nuovo presidente della repubblica italiana a cambiare le cose.