La Sardegna è quello strano posto dove viene mandato un esercito in assetto bellico a sfrattare da casa sua una famiglia, senza che alla politica istituzionale questa cosa susciti alcun turbamento. È anche il posto dove l’ingiustizia o la giustizia si basano non sui fatti, ma sulla simpatia/antipatia delle persone coinvolte.
C’è qualcosa di profondamente lacerato, nella nostra rete di relazioni sociali, così come nella percezione di noi stessi che si insiste a veicolare. Tutto questo ha ripercussioni dolorose che non sarà facile sanare.
Basti pensare a come viene trattato il patrimonio storico-culturale sardo. La politica italiana in Sardegna detesta qualsiasi elemento che infranga il dogma della nostra subalternità. Ne va della sua stessa sopravvivenza. In questo è sostenuta da un potente apparato di intellettuali organici, prigionieri di un evidente fenomeno di passing, per lo più posizionati in ruoli decisivi per la nostra organizzazione del sapere e per la produzione del discorso culturale egemonico.
Qualsiasi cosa possediamo, deve essere vagliata e convalidata dall’esterno, da chi è considerato depositario del potere (politico e culturale). I Giganti di Monte Prama diventano significativi solo perché se ne parla all’Accademia dei Lincei, e solo per questo una nostra conterranea, casualmente cooptata nella carica di sottosegretario alla cultura, ne tiene conto. Rilasciando dichiarazioni imbarazzanti in proposito.
D’altra parte, nella legge di bilancio regionale, che inizia in questi giorni il suo iter di approvazione, vengono penalizzati esplicitamente gli ambiti che più possono disturbare il progetto di normalizzazione in atto con la giunta Pigliaru: le previsioni di spesa per la lingua sarda e per la celebrazione di sa Die de sa Sardigna. Vedremo se queste previsioni rimarranno tali alla fine del percorso legislativo. Per ora il segnale è chiaro. Del resto è difficile che a dei “baroni” contemporanei faccia piacere rievocare la nostra Rivoluzione.
Non meno allarmante è l’enfasi con cui si collega il nostro patrimonio storico-archeologico alla sfera degli affari e del profitto economico. Una lettura economicista pericolosissima, che da sola offre la cifra della mediocrità politica dell’attuale compagine di governo dell’isola. Non solo: come se questo non bastasse, si presenta come scelta strategica positiva il collegamento dell’ambito archeologico sardo con Expo 2015, la grande manifestazione in procinto di tenersi a Milano. Un carrozzone corruttivo e in odore di infiltrazioni mafiose che rappresenta bene la cialtronaggine e la rapacità della classe dirigente italiana. Quella a cui si ispira, come unico modello possibile, la classe dominante sarda.
Non da meno sono i magheggi di questi mesi sulle entrate tributarie. Tra patti scellerati col “governo amico” e propaganda di bassa lega su presunti grandi successi (che in realtà nascondono fregature epocali), stiamo toccando l’ennesimo infimo punto nella discesa verso l’abiezione politica.
L’asservimento di intere aree dell’isola alla più cinica speculazione (che si tratti di chimica verde o di canne per bioetanolo, poco cambia) viene spacciata per unica possibilità di sviluppo economico. Il ricatto occupazionale è sempre un’arma di controllo sociale efficace.
Quel che rimane misterioso è l’atteggiamento di tanti che hanno sostenuto l’attuale maggioranza politica, con l’argomentazione che fosse prioritario “battere le destre”, cacciare Ugo Cappellacci, scegliere il “voto utile”. Persone singole e gruppi, pure percorsi da dubbi, quando non da certezze, che pure rimangono attaccati a schemi e cornici concettuali poverissimi, pur di non fare i conti con la realtà. Una forma di meschinità diffusa che non ci rende onore.
Da un’altra parte, ma nei pressi, ci sono le operazioni dell’ambito sovranista-neoautonomista, alla ricerca di un Partito Unico Sardo in grado di contendere al blocco storico dei partiti italiani il ruolo di intermediazione con i centri di potere esterni. E anche lì manovre tattiche a tutto campo, esercizi di storytelling a base di nazionalismi di seconda mano, di stereotipi identitari spacciati per criteri di selezione della vera sardità, discorsi fumosi su magnifiche sorti e progressive a cui si potrà andare incontro sol che si lasci fare ai vari profeti del verbo gattopardesco in salsa sarda, aspiranti dittatori dello stato libero di Qostasmeraldia.
Non è un momento facile. I guasti del mondo si riverberano in Sardegna amplificati dalla nostra debolezza economica, culturale, sociale e politica. Bisogna irrobustire i nostri anticorpi civici. Lasciar perdere le trappole dei mistificatori interessati e dei seminatori di zizzania, mantenere il senso del giusto e dello sbagliato, essere buoni lavoratori, buoni genitori, buoni amici, buoni lettori, diffondere semi di consapevolezza, non abbandonare i valori di rispetto, solidarietà, comprensione per le debolezze altrui, coltivare la coscienza della complessità: queste cose determinano la differenza tra saper stare al mondo e stare al mondo perché c’è posto. Sono poche regole pragmatiche che dovrebbero essere sempre in vigore, per chi abbia a cuore qualcosa di più del proprio ombelico.
Il disprezzo di noi stessi come collettività storica, la subdola insinuazione di tossine culturali vanno combattuti con quegli antidoti, non con altre tossine, di segno diverso ma non meno debilitanti. È difficile e faticoso, ma niente di importante si ottiene, e soprattutto si mantiene, solo per caso, o per pura fortuna. Tanto meno per concessione di un padrone.