Italia e Sardegna: nuovo centralismo e soluzioni cervellotiche

Non è mai molto edificante parlare di politica italiana. Figuriamoci quando si devono affrontare questioni delicate e complesse dentro cornici politicamente e intellettualmente penose. Questo è un caso. Merita di farne un oggetto di analisi perché ha comunque risvolti importanti.

Il PD intende proporre una riforma costituzionale per ridisegnare le regioni. Ora, che l’assetto regionale dello stato sia ridicolo è un dato di fatto. Ma non per le ragioni solitamente propagandate. Sembra che il problema delle regioni italiane sia la loro natura di catalizzatori di corruzione. Tale tesi è ridicola, perché l’unico vero motivo di stupore sarebbe se le regioni italiane NON fossero catalizzatori di corruzione. In Italia tutto è catalizzatore di corruzione. Lo stato italiano è nato su queste basi. Uno stato fondato sulla frode, sulle palesi violazioni del diritto internazionale, sulla repressione delle istanze di giustizia e di libertà delle popolazioni, sul patto strettissimo tra industriali del nord e latifondisti del sud, la cui manovalanza è sempre stata quella malavitosa (la premiata ditta mafia e affini). La corruzione è un elemento strutturale di questo sistema politico, ne è la linfa vitale, la vera spina dorsale economica. Così come l’impostazione feudale dei rapporti di produzione e di forza, il familismo amorale, la fedeltà di clan e di consorteria al posto del senso civico e dell’etica pubblica.

Uno stato che neanche nato già faceva la guerra ai suoi cittadini (ricordiamoci delle repressioni garibaldine in Sicilia e della guerra “al brigantaggio” del primo decennio dopo l’unificazione), consentiva ai più ricchi di prosperare indisturbati ai danni dei più poveri (come con la famigerata “tassa sul macinato”), o si dava agli scandali finanziari e corruttivi (pensiamo all’affaire della Banca romana). Uno stato centralista, brutale verso le differenze culturali pur presenti in larga misura al suo interno, ostile a qualsiasi idea di giustizia sociale. Uno spazio politico e culturale artificioso e propenso a esaltare la mediocrità, l’ignoranza, l’ottusità, pur ammantandosi di cultura aulica e di reminiscenze classiche.

Quando Piero Gobetti definiva il fascismo come la “biografia della nazione” non faceva che indovinare una formula generale che andava al di là del fenomeno fascista in senso stretto. È la propensione gattopardesca, la passione per le rivoluzioni passive, l’amore viscerale e di massa per i cialtroni sfacciati e fantasiosi a  caratterizzare la storia italiana contemporanea.

Riguardo a un soggetto storico come l’Italia, è davvero possibile concepirne un riscatto decisivo, un mutamento radicale? Io penso di no. Non c’è proposta seria e lungimirante che abbia diritto di cittadinanza, nel suo ambito politico. Invece, qualsiasi idea strampalata troverà puntualmente dei difensori e dei sostenitori. La proposta odierna sulla riforma delle regioni non è la prima baggianata pericolosa con cui abbiamo a che fare, insomma.

Le obiezioni al riguardo non possono riguardare i nuovi confini regionali proposti. Anche quelli attuali sono cervellotici e per lo più artificiosi. A parte alcuni casi (come la Sardegna, o il Sud-Tirol), non c’è niente che li giustifichi. A meno di non voler tenere conto dei fattori storici, culturali e geografici reali. Ma allora si dovrebbe ridiscutere l’impianto centralista dello stato e le sue articolazioni interne. Non nel senso di ridisegnare le regioni, bensì proprio di abolirle e di riformulare l’assetto politico e giuridico complessivo in termini federali, tenendo conto da un lato di processi partecipativi dal basso, realmente democratici, dall’altro delle continuità storiche. Il Mezzogiorno, la Toscana, il territorio dell’ex Repubblica veneziana, il vecchio Ducato di Milano, ecc. Bisognerebbe fare oggi, con tutta l’acqua che intanto è passata sotto i ponti, quel che non si volle fare un secolo e mezzo fa, quando la proposta federale fu scartata con forza dal novero delle possibili scelte concrete.

In tutto ciò il discorso relativo ala Sardegna assume un colore ancora diverso. A prescindere dagli assetti interni dello stato italiano, la Sardegna rimane sempre e comunque un’entità a sé stante. Persino nelle fantasiose partite a Risiko della politica italica l’isola è difficile da accorpare ad altri territori. La geografia, nel nostro caso più che in qualsiasi altro, ha un peso ineliminabile.

Non solo. Un’altra cosa deve essere chiara a tutti, fuori dai giochi retorici o dalle scappatoie furbesche: quale che sia il destino dell’Italia, la Sardegna ne sarà sempre coinvolta inevitabilmente come territorio oltremarino, con un ruolo strumentale, subalterno, funzionale a interessi e a scelte che non nascono e non hanno il proprio baricentro sull’isola. Non dipende nemmeno dalla buona o dalla cattiva predisposizione di questo o quel gverno. In questo genere di rapporti di forza ci sono fattori concreti che si impongono per virtù propria. Pensare che la Sardegna si salvi se “salviamo l’Italia”, come troppo spesso recitano ancora oggi leader politici nostrani, è una fesseria assoluta, persino mortificante. Solo l’autocolonizzazione della nostra classe dirigente (e di quella intellettuale in primis) può far sì che ancora abbia tanta forza un’egemonia culturale favorevole all’italianità della Sardegna.

Molti esponenti politici o accademici difendono questa dipendenza mortifera in nome di concetti astratti o di costrutti puramente retorici, come la democrazia conquistata con la Resistenza (da chi? dove? con quali risultati?), la bellezza della costituzione italiana (ce ne saranno almeno sei o sette più belle, in giro per il mondo, e comunque questo è un criterio politico davvero imbarazzante), l’appartenenza alla cultura di Dante, del Rinasciemnto, di Verdi (totalmente usurpata, nel nostro caso), ecc. ecc. Proprio qui siamo in presenza dei sintomi più evidenti dell’autocolonizzazione.

Gli unici effetti che l’italianizzazione della Sardegna ha prodotto su di noi sono stati: acculturazione forzata e desardizzazione, imposizione di scelte di politica economica devastanti (Piano di Rinascita e contorno), sudditanza a condizioni materiali inaccettabili (nei trasporti, nelle infrastrutture, nello sfruttamento energetico, nelle servitù militari e oggi probabilmente anche in quella nucleare), spopolamento. Potrò anche consolarmi leggendo la Divina commedia (capolavoro assoluto della cultura umana, per carità), ma la cruda realtà è che non siamo più nella condizione di poter accettare tutto questo.

Che giochino a ridisegnare la cartina dell’Italia, se hanno voglia. Sappiamo bene che l’unico vero scopo è irrobustire l’apparato di dominio vigente, imbastire una finzione credibile affinché, se le cose cambieranno, non cambi niente. Noi faremmo meglio a ragionare su una manovra di sganciamento il più rapida e indolore possibile. Dante lo leggeremo comunque e, se proprio il cruccio è questo, di costituzione ce ne potremo sempre scrivere una tutta nostra, anche più bella. E senza l’incombenza di sorbirci un predicatore barboso come è diventato Roberto Benigni a decantarne la bellezza a reti unificate un paio di volte all’anno.

1 Comment

  1. Purtroppo le stesse argomentazioni e a volte più ficcanti si trovano nel dibattito pubblico, leggere i quotidiani e periodici dell’epoca, che si sviluppò con le proposte del Prof.Miglio e della Fondazione Agnelli e il tempo sembra non essere trascorso. Il nodo, almeno per chi politicamente si riferisce alla natzione Natzione sarda, è sempre lo stesso, ricordato in coda al testo: la manovra di sganciamento. Rileggendo la manifestazione contro il militarismo italiano dei giorni scorsi e l’immagine che ne hanno proiettato sui cittadini sardi i neo indipendentisti , l’inesistenza di un piano di sganciamento è a mio parere la causa del l’impotenza di un’intera area politica incapace di essere punto di riferimento per una consapevolezza sempre più esplicita della natzione sarda che viaggia sul 30% dei consensi sbriciolati in moltissimi soggetti politici autoreferenziali. Il problema è politico insomma. Il piano di sganciamento, a mio parere, dovrebbe essere il nucleo politico programmatico per le prossime elezioni amministrative e regionali. una ipotesi, culturale, politica, economica e anche mitica, che sappia catalizzare con un impianto minimo comun denominatore, la lotta per l’autodecisione nazionale sarda. A quel 30% di elettori e ancora di più alla metà degli aventi diritto al voto che si sono astenuti va rivolto un messaggio unitario. Per far questo bisogna individuare il messaggio unificante, programma e patto d’azione , come sempre hanno fatto i movimenti di liberazione nazionale a qualsiasi particolare ideologia o programma aderissero i partecipanti. È sul programma di sganciamento che bisognerebbe basare una veloce discussione imposta dalla gravità della situazione sarda e anche per non trovarsi impreparati a fronte di cedimenti improvvisi dell’architettura centralista, sempre possibili nel quadro della 3 guerra mondiale a zone, come coraggiosamente il Papa ha definito questo periodo storico.

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