Specialità e subalternità

Ci si ostina a rivendicare come una grande conquista da difendere la “specialità regionale” della Sardegna. E non si tratta di fedeltà a qualche pietanza tradizionale. È una faccenda tristemente politica. Si tratta della nostra autonomia dentro l’ordinamento giuridico italiano. A questo proposito mi vengono in mente le “classi differenziali”, dove si radunavano disabili e portatori di handicap, ufficialmente allo scopo di offrire loro un percorso didattico adatto alle proprie capacità, in realtà per liberare gli altri, i pretesi normodotati, di una presenza frustrante per le loro superiori possibilità di apprendimento.

A noi Sardi ci hanno convinto che siamo handicappati e ci hanno inculcato la gratitudine per essere stati riconosciuti come tali. Ci hanno cucito addosso una bella gabbia mitologica e ne hanno fatto il nostro ghetto culturale. Su questo si baserebbe la tanto decantata specialità.

Sappiamo bene che le classi differenziali erano un abominio. Ancora oggi si sentono ogni tanto voci ostili alla presenza di disabili, portatori di handicap e stranieri vari nelle classi “normali”, ma si sa perfettamente che invece questa commistione è uno strumento potente di integrazione e di potenziamento delle capacità cognitive e relazionali dei ragazzi, di quelli svantaggiati come di quelli avvantaggiati. Ora, a un popolo sano, con una coscienza di sé almeno accettabile, non verrebbe mai la voglia di rivendicare il proprio svantaggio e su questo costruirsi la propria identità. Invece è precisamente quello che è successo a noi.

La politica e l’establishment italiani in questo momento sono percorsi da voglie centraliste e autoritarie, che si manifestano in varia forma. L’azzeramento dell’ordinamento “regionalista” dello stato è una. Dentro questa cornice uno dei bersagli da colpire con più precisione sono le regioni a statuto speciale. Tra esse, la più debole politicamente è proprio la Sardegna. Cosa c’è di strano o di sbagliato, nell’ottica di chi governa l’Italia e di chi cura gli interessi della sua classe dominante, nel voler eliminare del tutto qualsiasi forma di autonomia del possedimento oltremarino sardo? È una scelta lecita, coerente e anche abbastanza logica.

La nostra politica, inetta e conformista, a parte gingillarsi in sceneggiate massmediatiche e in annunci roboanti senza referente concreto, appena incappa in una minaccia vera o presunta verso la nostra specialità regionale, ne approfitta per recitare la parte del suddito ribelle al suo tiranno. Ma è un trucco. Come dimostra la trovata di accusare lo stato centrale delle condizioni penose in cui versa la questione linguistica sarda. Come se la responsabilità non fosse tutta della nostra classe dirigente! In questa, come in altre gravissime magagne strutturali.

Negli appelli alla salvezza della nostra specialità, il richiamo alla fine non è a una rinegoziazione del rapporto giuridico tra Sardegna e stato italiano, o almeno a un tentativo di applicare lo statuto vigente in tutto e per tutto, nell’interpretazione a noi più favorevole, bensì un’evocazione fuori luogo alla costituzione dello stato italiano medesimo, in nome di una coesione e unione ancora maggiore col “resto d’Italia”. La nostra classe politica proconsolare, o podataria che dir si voglia, anche nella sua componente sovranista, non può veramente desiderare alcun affrancamento effettivo della Sardegna dalla sua condizione di dipendenza: perderebbe qualsiasi ragion d’essere, la propria legittimazione, i propri indispensabili appoggi politici.

Per altro, chi stigmatizza l’aspirazione all’autodeterminazione dei sardi, spesso lo fa proprio adducendo come argomentazione la mediocrità della nostra classe politica. “Se fossimo indipendenti ci troveremmo ad essere governati da questi inetti, mamma mia! meglio che ci salvi l’Italia”. Mentre è chiarissimo che tanta mediocrità è protetta e garantita proprio dal rapporto di dipendenza verso quell’Italia (qualsiasi cosa essa sia) che dovrebbe proteggerci. Senza dimenticare che tali detrattori della nostra classe politica sono gli stessi che la votano sempre.

Chi difende la specialità sarda di solito è semplicemente un soggetto subalterno, un colonizzato felice della propria condizione deresponsabilizzata, ed è organico al sistema di dominio che ci sta facendo estinguere. Chi ha coraggio e capacità politica, chi ha onestà di giudizio e di propositi non può eludere la questione dell’autodeterminazione. Per affrontarla bsogna abbandonare i recinti della politica italiana, compresi i partiti che la rappresentano sull’isola. La sola idea di allearsi con essi, nella speranza di modificarne gli interessi e l’orientamento politico, fa ridere i polli.

Lo spazio politico per agire c’è, a cominciare proprio dalla nostra autonomia attuale, che in pochi in realtà difendono veramente e sembrano desiderosi di portare alle sue estreme possibilità; lo spazio sociale è tutto da verificare, ma la crisi in questo senso lo sta ampliando, anche in termini di soluzioni innovative spontanee. La base culturale esiste già e per fortuna non aspetta la politica. L’autonomia va senz’altro difesa dagli attacchi centralistici, ma solo come base di partenza per un ulteriore salto di fase, richiesto dalle circostanze storiche e dalle necessità strutturali della Sardegna. Chi ha voglia di rimanere chiuso nella sua classe differenziale, insomma, che lo faccia pure, ma senza di noi.

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