Francesco Bachis, antropologo, dedicando una recensione a Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso, propone alcune interessanti considerazioni. Senza avere la pretesa di esaurire gli argomenti, è importante rispondere nel merito, precisando i contorni delle questioni.
Francesco Bachis muove una prima obiezione:
Una domanda, tuttavia, sorge spontanea. Se tutte le identità sono menzogne, se tutte sono costruite, lo è anche la consapevolezza, l’autocoscienza che i sardi devono costruire, o meglio, recuperare per prendere piena consapevolezza di sé?
Non sarebbe forse una costruzione produrre un “racconto coeso e coerente” nell’arte, nella storia e nella letteratura, come auspica l’autore, perché emerga una “collettività dotata da secoli di una sua soggettività storica” che una storiografia asservita avrebbe nascosto o cancellato? Non si rischia di essere facilmente decostruzionisti con le identità degli altri?
Il problema qui evocato è quello generale del mito e delle narrazioni collettive. È vero, ogni mito è pericoloso, perché è manipolatorio. La macchina mitologica produce effetti concreti nella vicenda storica, materiale, degli esseri umani. Non si tratta solo di “raccontarcela diversamente”, perché le parole creano mondi e a parole diverse corrispondono mondi diversi. È inevitabile, per la nosta specie. Siamo animali sociali e per giunta ci serviamo di un linguaggio simbolico complesso. Noi esistiamo e comunichiamo dentro una rete di relazioni. Il nostro stesso cervello funziona per figure retoriche e agisce/reagisce alla presenza dell’altro da sé con meccanismi di mimesi ed empatia (come sembrano accertare gli studi sui neuroni specchio). In definitiva, il mito è costitutivo del nostro stesso stare al mondo.
Un primo passo dovrebbe dunque essere la consapevolezza diffusa circa questi meccanismi. Invece la stragrande maggioranza degli esseri umani ignora come funzionino queste cose ed è propensa a interiorizzare narrazioni imposte egemonicamente da chi ha la forza e i mezzi per imporle, in funzione di obiettivi politici ed economici. Siamo prevalentemente agiti dalla macchina mitologica, senza al contempo agire a nostra volta. È un meccanismo ben studiato e ben spiegato dai vari Nietzsche, Gramsci, Foucault, Deleuze, Bourdieu, Jesi e via elencando. Già solo il fatto di rivelare il meccanismo della creazione del mito e la sua radice non disinteressata è un atto emancipativo.
Ciò premesso, la domanda non è dunque più se sia o no opportuno avere un mito diverso da sostituire a quello debilitante in cui siamo vissuti fin qui, ma caso mai quale mito collettivo fondare (o rifondare), dentro quale orizzonte e secondo quale senso e anche chi debba essere il depositario della creazione mitica e in base a quale legittimazione.
Qui si ricollega la seconda obiezione di Bachis:
[…] alla voce Geografia si denuncia lo sguardo italocentrico della nostra concezione geografica ma al contempo lo si critica non come eurocentrismo, ma sulla base del fatto che “il centro del nostro orizzonte non è posto in Sardegna”. Ma è proprio dal pensarsi come centro del mondo – l’etnocentrismo in termini tecnici – che nascono parecchi problemi per la propria consapevolezza, poco importa che sostituiamo l’Italia con la Sardegna.
È una argomentazione articolata, perciò richiede una risposta articolata. Intanto, dal punto di vista storico, e dunque materiale, culturale e politico, non è vero che “poco importa che sostituiamo l’Italia con la Sardegna”. Anche solo rimanendo a questo livello del discorso, qui c’è un nodo molto rilevante, che ha conseguenze pratiche decisive. Uno dei danni più grandi prodotti dall’intellettualità sarda negli ultimi 150 anni è proprio il fatto di aver accettato con molta disinvoltura di spostare la sede della propria legittimazione come categoria sociale e anche la fonte della nostra produzione di senso (in ambito creativo, storico, politico, ecc.) in Italia. Bisognerebbe sviscerare questo problema e andarne a sondare radici ed effetti storici, senza rimuoverlo frettolosamente.
Ma il vero rimprovero è rivolto alla presunta pretesa di fondare un nuovo etnocentrismo, rivelato dalla mia affermazione – rintracciabile nel libro (ma anche su queste pagine di blog) – che il centro del nostro orizzonte non è posto in Sardegna. Si tratta di un equivoco. L’etnocentrismo prevede una attribuzione di valore e una assolutizzazione del proprio sguardo. Io (ovvero la mia collettività etnica, quella sostanzialmente fondata sulla comunanza di sangue) non solo sono il centro del mondo ma sono anche la cosa che al mondo ha più valore. E tutto il resto è estraneo, se non ostile. È una forma estrema di difesa, ma di stampo paranoico, ottusa e foriera di disastri, come dovremmo ben sapere. Ed è qualcosa di molto distante dalla semplice constatazione che la nostra percezione di noi stessi nel mondo è deformata. In questo caso non si attribuisce alcun maggior valore all’appartenenza, al fatto di essere sardi (cosa significa “essere sardi”?), tanto meno la si pone in termini di purezza etnica. Né si perora la causa di una autoidentificazione dei sardi come monolite sociale, soggetto collettivo indistinto, senza alcuna differenziazione interna, in termini nazionalisti ottocenteschi. Tutt’altro.
Il discorso è un altro. Qualsiasi sguardo è un punto di vista. Privarsi del proprio e assumere un punto di vista altrui è una scelta patogena, le cui conseguenze sono sotto i nostri occhi, purtroppo. Del resto è un fenomeno di cui non siamo gli esclusivi depositari e che è stato ampiamente studiato (per esempio nella riflessione postcoloniale).
Il problema, dunque, è casomai perpetuare l’equivoco invocando pericoli inesistenti, a fronte di pericoli invece molto vicini e concreti. Il pericolo per la Sardegna non è certo un’incombente ventata nazionalista, né la propensione dei sardi a praticare l’affermazione politica di sè (ossia, della propria classe dirigente) su altri. Il pericolo, come attestano tutte le proiezioni statistiche in ambito demografico ed economico, è la nostra estinzione, la desertificazione della Sardegna e la sua definitiva riduzione a un ruolo strumentale e tributario verso grandi interessi geopolitici ed economici esterni. Processo a cui si è votata, per proprio tornaconto di parte, una fetta della nostra stessa società, minoritaria ma forte di mezzi e relazioni, quella che ha dominato fin qui il nostro scenario politico.
La questione del nostro sguardo su noi stessi e sul mondo – e dunque anche quella dell’indipendenza politica – non va posta su un piano ideologico, o valoriale, bensì su un piano storico e pragmatico. Nel mondo contemporaneo l’unica forma di soggettività politica collettiva compiutamente dispiegata è lo stato. O sei un ordinamento giuridico di tipo statuale o non sei un soggetto di diritto internazionale. Non entra nemmeno in gioco qui la propensione o l’avversione per tale modello. Trattasi di mera constatazione. Tra cento anni forse le cose staranno diversamente. Il problema, in definitiva, è precisamente la maturazione nei sardi di una coscienza di se stessi come collettività storica pienamente inserita nel nostro contesto geografico e politico, in cui oggi siamo una pedina senza voce. L’obiettivo politico dovrebbe essere la costruzione di un modello di convivenza diverso da quello debole, subalterno e povero che ci è stato applicato sistematicamente da duecento anni in qua, quale che sia la forma giuridica che tale nuovo modello prenderà. Perciò non certo l’aspirazione alla prevaricazione e alla chiusura, ma piuttosto a un’esistenza libera e dignitosa, in relazione aperta e equilibrata col mondo. Relazione da cui oggi siamo tagliati fuori, in quanto privi di soggettività politica, subalterni quanto a sistema di interessi da promuovere e avvinti in un mito identitario passivo, folklorizzante e razzista.