Ci sono dei problemi macroscopici molto concreti che toccano la vita dei sardi, sia nel loro variegato insieme sia come singole categorie sociali o anche come famiglie e come individui. Tali problemi sembrano per lo più insolubili e spesso ci fanno compagnia da tutta la vita e persino da generazioni. L’irresolubilità, sembrerebbe, è uno dei tratti distintivi della “quistione sarda”. È molto interessante studiare le cause di questo strano fenomeno storico. Per farlo si può proficuamente partire da esempi concreti, tratti dalla nostra attualità.
Consideriamo l’evidente crisi del settore turistico. Un ambito economico che si vorrebbe decisivo per l’Isola mostra in questo periodo tutti i segni del declino. Che ci sia la crisi, insomma, è un dato assodato su cui esiste una largissima condivisione, se non l’unanimità. Che si tratti di un problema molto grave e di vasta portata è opinione ugualmente condivisa. Quel che non si riesce a capire è perché non si trovino soluzioni adeguate al problema.
In proposito segnalo un pezzo uscito sulla Nuova alcuni giorni fa. Questo è l’incipit:
L’isola da vendere, tutta spiagge bianche, mare cristallino e rocce levigate, sembra avere perso la sua forza ammaliatrice. Il prodotto di mercato da piazzare ai turisti non tira più. Stroncata da portafogli vuoti, dalle rate dell’Imu, dal caro traghetti si spegne anche l’ultima fabbrica che produceva utili e non cassintegrati. Il turismo. Ma quasi nessuno si sorprende, la crisi feroce ha impoverito gli italiani e reso la Sardegna un’isola proibita. Il crash del sistema ha radici lontane. Non basta il prezzo imbizzarrito di una traversata via mare, con il gasolio che costa come champagne, per schiantare il titolo Sardegna nella borsa delle vacanze. L’isola resta ammorbata dal suo male antico. L’arretratezza.
Metto in evidenza il termine “arretratezza” perché è la parola chiave. Nel prosieguo dell’articolo si stigmatizza la propensione al cemento come unica forma di investimento turistico, il che è sacrosanto. Eppure, pur ammettendo una serie di cause materiali ben precise, il focus dell’analisi viene posto su una caratteristica che sta su un altro piano del discorso. Non è un aspetto proprio del modello economico dominante o una magagna della nostra sfera politica, bensì è più precisamente una caratteristica antropologica.
Cosa significa “arretratezza”? Quali connotazioni richiama? A cosa pensiamo quando leggiamo questo termine? Non ci vengono in mente scelte politiche deleterie, speculazioni rapaci, carenza di formazione e informazione, negazione del diritto alla mobilità e/o altre questioni pratiche di natura politica ed economica. In mente ci viene invece uno degli elementi del nostro mito identitario: la nostra incapacità congenita di essere parte della storia del mondo in termini attivi, la nostra insufficienza a noi stessi. Noi siamo arretrati, noi siamo isolani-isolati, siamo indietro, siamo fuori dal circuito della civiltà. Ed ecco magicamente svanire tutte le possibili soluzioni al problema. Di cosa vogliamo parlare, se siamo arretrati? La nostra è una mancanza insuperabile, accumulatasi nei tempi storici e ormai connaturata in noi.
È il modo pià efficace di presentare un problema e di evocare possibili soluzioni? Nel pezzo manca totalmente, ad esempio, il collegamento con la scarsa conoscenza e la mancata valorizzazione del nostro immenso patrimonio storico-culturale. Eppure, nell’ottica di una seria pianificazione idustriale in ambito turistico, questo fattore dovrebbe essere ai primissimi posti. Constatato che non bastino più le belle spiagge e un clima favorevole per attirare visitatori stranieri, bisognerebbe anche indagare su quali attrattive tutte nostre possiamo contare per rendere un soggiorno in Sardegna non fungibile, non sostituibile con un soggiorno in qualche resort greco, tunisino o egiziano (giusto per fare degli esempi). Insomma, interpretare un problema concreto, di natura economica e politica, attraverso la lente del nostro mito identitario malato è funzionale soltanto alla conservazione dello status quo. È un esercizio narrativo altamente deresponsabilizzante, che esclude qualsiasi visione diversa, proattiva e pragmatica.
Possiamo osservare lo stesso fenomeno anche su un altro fronte. L’intera Sardegna solo pochi giorni fa è rimasta choccata dalle novità sul drammatico caso di Dina Dore, la donna di Gavoi uccisa cinque anni fa sotto casa sua, in quello che sembrava un tentativo di sequestro mal riuscito. La tragedia aveva scosso la comunità gavoese, non abituata a tali fatti di cronaca (e questo la direbbe già lunga su alcuni luoghi comuni a proposito di Barbagia e di Zone Interne). La possibilità, ora emersa dalle indagini e rilanciata dai mass media, che dietro questo esito tragico ci sia lo stesso marito della donna ha riaperto la ferita e ci ha gettato dentro una bella dose di sale.
Chi frequenti le questioni di genere sa che la violenza sulle donne è una delle più allarmanti derive di questi nostri tempi liquidi. Per una donna è più facile morire per causa violenta (quasi sempre perpetrata da una persona vicina, dal marito, dal compagno, dal fidanzato, da un ex, da un familiare) che per malattia o per incidente. La violenza sulle donne non è estranea alla Sardegna, benché ci piaccia pensare che da noi sia ancora vigente il famoso matriarcato sardo. Si tratta anche qui di una pretesa infondata, basata su un fraintendimento radicale di alcune nostre caratteristiche culturali e storiche. Non è vero che non ci sia la violenza sulle donne in Sardegna (e per verificarlo basterebbe parlare con chi gestisce un centro anti-violenza in qualche nostra comunità) e non è vero che sia vigente, sotto alcuna forma, un regime matriarcale. Eppure, quasi a scacciare da noi qualsiasi forma di responsabilità collettiva, c’è chi è intervenuto sulla questione, proprio in relazione all’assassinio di Dina Dore, rispolverando tale abusato cliché identitario.
Anche in questo caso, al di là di altre considerazioni, è evidente che ricorrere a elementi mitologici siffatti serve solo a deresponsabilizzarci, a rimuovere o almeno ridimensionare il problema, respingendo la necessità di farcene carico interamente e in tutti i suoi risvolti. Il che non significa che non sia opportuno, e anzi indispensabile, studiare e contestualizzare la questione di genere in Sardegna. Si sa (o si dovrebbe sapere) che questo tema da noi ha caratteristiche, sviluppi ed esiti suoi propri, non riconducibili all’ambito culturale e storico italiano. Ma questo non viene mai detto. Viene semplicemente evocato un luogo comune identitario in termini normalizzanti, volti a disinnescare il problema posto da un tragico fatto di cronaca, pure ineludibile.
In definitiva, il nostro mito identitario produce l’incomprensione dei problemi e la loro mancata soluzione. Questo è vero e verificabile in molti ambiti e deve darci molto da riflettere sull’urgenza di riappropriarci della capacità di situare noi stessi nel tempo e nello spazio, al di là delle narrazioni egemoniche veicolate dall’apparato di potere dominante, del tutto ostile, nel proprio interesse, alla soluzione di qualsiasi nostro problema materiale, sociale e politico.