Il materialismo storico insegna che ogni essere umano non è altro che un nodo, un fascio di relazioni, la più importante e determinante delle quali è il rapporto di produzione, il suo specifico ruolo dentro i processi produttivi. Gli elementi strutturali della esistenza umana sul pianeta sarebbero dunque relazionali e concreti, legati indissolubilmente al sistema produttivo vigente.
Questa visione è stata spesso volgarizzata e semplificata, anche a causa della complessità del pensiero marxiano da cui discende e dello stato provvisorio e incompiuto di gran parte delle teorizzazioni di Marx. Così è diventata dominante presso la dogmatica marxista l’assolutizzazione del rapporto di produzione come unica relazione decisiva e strutturale, a discapito di altre. In questo quadro si è postulata la lotta di classe come unica dinamica interna alle società umane, a prescindere da altri fattori, relegati nel novero delle sovrastrutture. Su questa base era facile affermare che un operaio o un bracciante inglese fosse sostanzialmente la stessa cosa di un operaio o un bracciante italiano o russo o cinese.
Sappiamo che storicamente questa visione è stata ridimensionata molto presto. Già in Lenin la consapevolezza che si trattasse di un’astrazione poco pragmatica era ben presente, ma gli eventi successivi, dagli anni Venti del Novecento in poi, hanno chiarito che separare la lotta di classe dal contesto storico-geografico in cui il conflitto aveva luogo era impossibile. Il fallimento della Terza Internazionale offrì una sanzione anche formale a tale evidenza storica.
Tuttavia in ambito marxista italiano la lezione di quegli anni non è stata metabolizzata a sufficienza. Con l’esito paradossale che il comunismo italiano è sempre stato estremamente nazionalista al suo interno pur rinnegando il nazionalismo in linea dottrinale. L’ambiguità togliattiana in questo ha avuto il suo peso, ma in generale tutta la dirigenza comunista italiana, pur figlia della Terza Internazionale e partecipe delle tragedie della prima metà del XX secolo, ha sempre teso a ragionare in termini molto astratti riguardo al contesto italiano medesimo, facendo prevalere un fortissimo centralismo statale.
Certamente la Guerra fredda e i rapporti di potere instauratisi nel secondo dopoguerra non hanno favorito le aperture teoriche e l’elasticità politica altrimenti necessarie. Lo stesso Gramsci in Italia è stato relegato in soffitta, traendone poche nozioni semplificate e solo in termini tattici, senza che il suo pensiero diventasse fonte di evoluzione e di analisi viva della realtà storica contemporanea (come invece è successo praticamente ovunque nel mondo).
In Sardegna ciò ha comportato un fenomeno deleterio. La componente politicizzata del mondo del lavoro e i dirigenti socialisti e comunisti sardi sono sempre stati votati a una ottusa fedeltà all’Italia come unico contesto di riferimento, sulla base della tesi che le lotte per i diritti dei sardi avessero come ambito di azione e di risoluzione l’ambito italiano. Non c’è mai stata una riflessione libera, non dogmatica, sulla questione sarda (tradendo in questo, per l’ennesima volta, lo stesso Gramsci), anzi la si è sostanzialmente negata. Le uniche soluzioni accolte sono state quelle – insulse anche da un punto di vista marxista – del Piano di Rinascita, ottusamente sposate come risolutive, forse nella speranza che proletarizzando i sardi si sarebbe ottenuta l’egemonia culturale (e magari politica) sull’isola. Aspettativa sconfinante nella follia, se calata nella nostra realtà storica concreta.
Questa profonda e drammatica lacuna nel pensiero socialista e comunista sardo, dovuta soprattutto all’ignoranza pressoché assoluta della nostra storia, ha fatto sì che il processo di disgregazione della rete di relazioni, che teneva coese le nostre comunità al proprio interno e tra di loro, sia stato sostenuto e incentivato da quelle stesse forze sociali e politiche che invece avrebbero dovuto farsi carico di tale rete relazionale, rappresentarla, difenderla, farla evolvere. Pensiamo alle posizioni assurdamente anti-sarde in materia linguistica, al disconoscimento delle istanze comunitarie e collettivizzanti largamente presenti presso le nostre comunità, all’ostinazione con cui si è sempre negata la legittimità della lotta per l’emancipazione storica dei sardi, vista come una aberrazione anacronistica anziché come una necessità pienamente inscritta nell’ordine delle cose.
Questa deriva politica ha i suoi strascichi pesanti ancora oggi. È una delle cause principali del degrado sociale e culturale della Sardegna. Lo vediamo in quel che resta dell’attività sindacale, ridotta a mera gestione di clientele, conservatrice e legata mani e piedi allo status quo. Lo vediamo nell’incapacità di intercettare il malessere devasatante che colpisce vaste aree della nostra terra. Lo vediamo nel rifiuto pervicace di assumere come propria una visione dei nostri problemi centrata su noi stessi, sul nostro ambito storico-geografico.
Così, la condizione problematica dei sardi, determinata dalla situazione di dipendenza economica e politica dall’Italia, non trova altro sfogo che nell’aspettativa di favori da parte del politico di riferimento o – quando questi favori diventano impossibili – nel voto di protesta e di avvertimento. L’esito delle elezioni politiche nel Sulcis, ad esempio, è decisamente esemplificativo di questo fenomeno.
Oggi anche in Sardegna ci si straccia le vesti per l’affermazione sorprendente del Movimento 5 Stelle di Grillo, senza capire che questo esito non è il problema, caso mai è il sintomo. E per certi versi la soluzione. Il M5S ha una funzione normalizzatrice, porta il possibile conflitto dentro le forme istituzionali, anziché combatterle dall’esterno per farle collassare. Il che comporterà un problema per il M5S medesimo, ma questo dal punto di vista generale conta poco.
Ci si stupisce che il voto di autoaffermazione del disagio e della voglia di cambiamento abbia premiato una realtà esterna e per molti aliena alla Sardegna come il movimento di Grillo e non invece l’ambito indipendentista. Ma anche qui non ci vuole la palla di vetro per discernere cause ed effetti. I sardi non hanno una profonda consapevolezza di se stessi nel tempo e nello spazio. Tendono a rappresentarsi come appendice sfortunata e marginale dell’ambito italiano. Si vedono come elemento periferico dentro un orizzonte i cui contorni sono stabiliti dalle narrazioni televisive e mediatiche italiane. Non capire questo significa abbandonare qualsiasi tentativo di analisi della nostra situazione storica. Aspettarsi che i sardi, che non si percepiscono come soggetto storico ma ancora come mero oggetto, abbandonino l’affidamento protestatario e la speranza di aiuto esterno a favore di una assunzione piena di responsabilità è del tutto insensato. Non serve nemmeno aggiungere considerazioni sulla pochezza e la scarsa credibilità dell’offerta politica indipendentista in questa tornata elettorale, da sommare alla inconsistenza ormai acclarata del sardismo.
Il sistema politico sardo esce malconcio, da questa fase, proprio in virtù della sua incapacità di rimodularsi sulla nostra realtà storica. Le propaggini sarde dei centri di potere italiano sono due volte più deboli, in questo scenario, proprio perché si ostinano a dipendere da entità a loro volta al collasso. In questo, l’eredità ormai atrofica e mummificata della dogmatica marxista va a braccetto con i rimasugli sfilacciati dell’apparato clientelare e subalterno di matrice democristiana e autonomista. Sperare che queste forze anacronistiche, ormai allo sbando, possano ancora utilmente concorrere alla nostra salvezza collettiva è un povero calcolo tattico destinato a rivelarsi errato. Ipotizzare un ripiegamento delle istanze emancipative sarde su posizioni meno conflittuali e più conformi al sistema di potere vigente è una scelta di retroguardia buona forse per garantire la pensione a qualche leader alla fine della sua parabola politica, ma non certo a fondare un percorso di liberazione e di dispiegamento della nostra soggettività storica.
Aver paura della complessità non serve, così come non serve cercare di rimuoverla. La complessità la si affronta. Se il nostro destino collettivo, alle tendenze attuali, è di ritrovarci tra quarant’anni più poveri economicamente e demograficamente, più vecchi e più malati, è adesso che va invertita la rotta. Per farlo è necessario abbandonare illusorie scorciatoie (come la Zona Franca, o il “sovranismo”, o altri feticci sventolati un po’ a caso e per disperazione davanti alle corna delle nostre stringenti necessità strutturali) e svolgere con pazienza e dedizione il compito di generare una nuova visione di noi stessi e al contempo di rigenerare il nostro tessuto economico e sociale alla luce delle nostre reti di relazioni, nel contesto geografico, storico e culturale cui apparteniamo. Si può fare. Lo abbiamo già fatto, nel corso della nostra storia. E qualcuno lo sta facendo anche adesso. Bisogna porselo come obiettivo e generalizzarlo, coinvolgendo tutte le forze sane, vitali, realmente produttive di cui disponiamo.