Siamo immersi in un campo di forze narrative estremamente complesso e articolato. La capacità di assorbimento di informazioni del nostro cervello si è evoluta in centinaia di migliaia di anni per rispondere a mutamenti anche repentini, per escogitare soluzioni concrete a situazioni diverse, senza poter ricorrere alla forza bruta o alla velocità o ad altre capacità fisiche, di cui la nostra specie non è dotata. Chi studia il cervello umano e la sua evoluzione ritiene però che oggi esso funzioni in modo meno efficiente rispetto a qualche secolo fa. È come se la nostra capacità di risolvere problemi si sia affievolita.
In passato, fino a non molto tempo fa (non molto persino su scala umana), ciò poteva comportare la morte (individuale o del gruppo di appartenenza) o almeno la significativa riduzione delle possibilità di riproduzione (il che è grosso modo lo stesso, in termini biologici ed anche storici). Oggi invece, dotati come siamo di dispositivi tecnologici diversificati e sofisticati, non abbiamo più molto bisogno di saper reagire individualmente o come gruppo ristretto agli stimoli estemporanei. Quello di cui avremmo bisogno, invece, è una più alta capacità di filtro e di selezione delle informazioni, che ci sottragga alla “cosa da topi” appresso alla cosiddetta attualità.
In momenti di particolare parossismo informativo, come in questi giorni, possiamo constatare facilmente a quale carico di input possano essere sottoposti il nostro encefalo e la nostra capacità di assorbire, metabolizzare e trasformare in reazioni conseguenti la miriade di informazioni da cui siamo quotidianamente bombardati. Un sovraccarico che mette a dura prova la capacità di comprensione di cui disponiamo, con la conseguenza – pericolosissima – di mandare in tilt il nostro sistema neurologico e la nostra capacità di interazione col mondo.
È troppo facile limitarsi a osservare che questa condizione così precaria è un’ottima forma di controllo, un comodo fattore di dominio delle masse. La liquefazione e la disarticolazione delle nostre reti relazionali di base, e dunque anche dei nostri strumenti di codificazione della realtà, dei nostri stessi processi di identificazione, è certamente funzionale al depotenziamento di qualsiasi spinta contro-egemonica.
Tuttavia, sia in natura sia nella storia (due sfere troppo semplicisticamente considerate estranee l’una all’altra), la complessità è difficile da ingabbiare a proprio uso e consumo, e qualsiasi sistema di controllo ha una limitata efficacia, specie se si procede oltre il breve o brevissimo periodo. Così, non è dato sapere a cosa porti, anche in termini politici, la tecnica manipolativa che si esplica nel bombardamento informativo o nell’uso massiccio dei social media. Le forme di adattamento e reazione non sono sempre prevedibili e, se pure si possono azzardare predizioni sui grandi numeri, esse sono inevitabilmente approssimative, si lasciano sempre sfuggire qualcosa, magari quel granello che poi finisce per infilarsi tra gli ingranaggi e far grippare il meccanismo.
Di sicuro il tentativo di sottrarre alla popolazione nel suo insieme gli strumenti basilari di comprensione e razionalizzazione dei fatti, di depotenziare la capacità di connessione tra elementi narrativi, di debilitare i processi cognitivi e identificativi, ha avuto un suo parziale successo, nel corso degli ultimi settant’anni, e degli ultimi trenta in particolare. E però è anche facile osservare che alcuni strumenti di gestione e controllo dei fattori cognitivi e dei processi di conoscenza si sono rivelati, o si stanno progressivamente rivelando, troppo difficili da controllare in tutte le loro potenzialità.
In un’ottica pragmatica e proattiva, per essere in grado di gestire, processare e trasformare in reazioni coerenti e sensate la massa di informazioni che ciascuno di noi riceve ogni giorno, sarebbe necessario impostare un nuovo modello educativo e didattico. La complessità non andrebbe rimossa ma affrontata, tenuta presente, almeno come sfondo di ogni singolo apprendimento, di ogni singolo assorbimento di informazioni. Per questo è importate ri-declinare, nelle forme adeguate agli stimoli ambientali e storici, le reti relazionali attraverso le quali si forma e agisce nel mondo la nostra personalità, usandole non in modo passivo e meccanico ma in connessione al proprio territorio fisico, alla propria stratificazione culturale e alle proprie forme di socializzazione spontanea.
Bisognerebbe recuperare l’ancestrale coscienza (o subcoscienza) della nostra profonda interconnessione con tutto ciò che esiste (e innanzi tutto con i nostri simili, il nostro “prossimo”), quella forma primaria di “religione” di cui ciascuno è cosciente e che poi prende tutte le sembianze che conosciamo nelle esistenze concrete degli individui, a seconda dei fattori ambientali, fisici e storici che conformano la nostra vita concreta. Bisognerebbe andare oltre i modelli egemonici e fondamentalmente televisivi a cui invece facciamo prevalentemente riferimento, anche senza ignorarli, facendoci i conti senza farsene ingabbiare. In questo senso, si possono sfruttare – come in parte sta già avvenendo – le potenzialità offerte dalla tecnologia e dall’informatica. La spinta alla convergenza come adattamento alla nuova disponibilità di mezzi di comunicazione è già stata individuata e analizzata in termini teorici e ha già prodotto nuovi orizzonti di ricerca, oltre ad aver già aperto possibilità inesplorate, sia in termini culturali, sia anche politici.
Nel nostro mondo concreto, la principale agenzia formativa che dovrebbe farsi carico di quest’evoluzione pedagogica è la scuola. Ma sappiamo bene come nell’ambito politico e istituzionale italiano la scuola sia sotto attacco da ormai un ventennio. Il che, se calato nella realtà sarda, ha un risvolto paradossale. La scuola italiana è stata uno strumento di acculturazione forzata e di destrutturazione dei nostri processi identificativi, come sappiamo. Ancora oggi gran parte della nostra visione del mondo passa per le cornici concettuali imposteci dalla scuola e dalla università italiana, cornici concettuali dentro le quali noi non esistiamo neppure. Ma dalla scuola e dall’università sono passati anche gli strumenti per costruire una consapevolezza diversa di noi stessi. Il loro depotenziamento brutale ci lascia in balia della nebulosa informativa veicolata dai mass media, senza contromisure disponibili, senza capacità di discernimento. Ciò che ci costringe a rimanere prigionieri del mito debilitante da noi interiorizzato negli anni della nostra dipendenza italiana.
Rischiamo insomma di trovarci in ritardo con la storia, quando la storia ci chiamerà – come ci sta chiamando, nell’inconsapevolezza generalizzata – ad affrontare con le nostre forze il passaggio di fase in cui siamo ormai immersi. Lavorare per sostenere o costruire ex novo reti relazionali adatte alla complessità contemporanea e per fondare nuove narrazioni collettive non solo nostre ma anche all’altezza dei tempi e dotate di forza emancipativa è uno dei compiti più importanti che abbiamo davanti.