Le forme che assumono le relazioni e i rapporti tra esseri umani hanno a che fare col livello collettivo e con il concetto di massa, più che con l’individuo e la parabola esistenziale delle singole persone.
Il concetto di individuo è largamente sopravvalutato. La tradizione cristiana e l’ideologia capitalista hanno contribuito (nel proprio interesse) a questo equivoco, tanto che esso è molto più caratteristico delle culture di matrice europea che di quelle di altra tradizione. Proviamo dunque a considerare come soggetti storici le collettività, allontanandoci dal modello teorico individualista dominante.
A seconda del livello di complessità raggiunto dall’umanità nelle sue varie forme di civilizzazione, quindi a seconda della distribuzione geografica e demografica, nonché dei mezzi di comunicazione e di produzione, le reti di relazioni umane occupano, sviluppandosi, uno spazio di esistenza piuttosto definito. Quello spazio in cui possono esplicare il massimo della propria potenzialità. In realtà non si tratta mai di uno spazio chiuso, bensì di uno spazio articolato al suo interno e interconnesso (più o meno direttamente e intensamente, a seconda delle condizioni storiche e materiali) con l’esterno, spesso non esente da conflitti di sovrapposizione.
Il fattore geografico è sempre stato determinante, nel circoscrivere gli spazi di massimo dispiegamento delle potenzialità delle collettività umane. Al netto di altri fattori (quindi, semplificando il modello), si può dire che entro certi livelli di complessità e entro una certa possibilità di comunicazione sia fisica diretta (attraverso i mezzi di locomozione e di trasporto) sia mediata (ossia veicolata da qualche medium, da quelli più elementari a quelli tecnologicamente più sofisticati) esistono dei limiti geografici invalicabili per qualsiasi forma di civilizzazione. Ecco perché anche gli imperi più grandi e organizzati nella storia umana non sono mai riusciti ad espandersi oltre un certo ambito spaziale.
Con tutta evidenza, l’ipotesi di una forma di civilizzazione di estensione planetaria attualmente è ancora oltre le possibilità concrete della nostra specie. Quel che abbiamo ereditato dal passato recente sono una serie di aree più o meno omogenee su cui si è generato, in virtù degli altri fattori storici (quindi economici, sociali e culturali), un modello di convivenza che assume la forma giuridica dello stato e quella culturale della nazione.
L’idea di nazione, in senso moderno, è un costrutto storico, fondato su condizioni strutturali di tipo produttivo e culturale la cui radice è spesso legata a tessuti relazionali generatisi nel passato, sotto forma di etnie che condividevano consanguineità, lingua, costumi e forme economiche proprie, oppure costruiti attraverso un processo egemonico di tecnicizzazione di materiali mitologici in funzione degli interessi di una classe dominante (come per esempio l’idea di nazione italiana).
I processi avviati nel Seicento (con prodromi già nei secoli precedenti, in Europa) e dispiegatisi compiutamente tra Otto e Novecento hanno conferito al concetto di stato nazionale una forza e una autoevidenza che ne nascondono la radice comunque storica, ossia la sua natura contingente e strumentale.
In alcuni casi la forzatura è arrivata a contraddire in linea di fatto i principi su cui la costruzione stessa degli stati nazionali si è basata. Per esempio l’autodeterminazione dei popoli, tanto cara al diritto internazionale, ma ampiamente violata non appena si impongano interessi più forti (più forti di fatto, non in linea di principio). Da qui l’esistenza di stati “nazionali” con al loro interno minoranze spesso consistenti, vere e proprie nazioni senza stato, sacrificate e spesso normalizzate con metodi raramente pacifici, e comunque sempre impositivi.
La deriva di questo modello, anche in Europa, è la creazione o la pretesa di “spazi vitali” fittizi, disegnati sulle mappe in base alle ambizioni delle varie classi dominanti, a prescindere dalle reali articolazioni della rete relazionale umana dei vari territori. Costruzioni e pretese spinte fino al punto di causare guerre e devastazioni su scala addirittura planetaria. L’uso politico e strumentale del concetto di “nazione”, di “interesse nazionale” e di “spazio vitale” ha fatto sì che esigenze strutturali e meccanismi spontanei della convivenza umana siano stati piegati a interessi di parte o di classe.
L’ideologia socialista, fondata sulle teorizzazioni di Marx e soprattutto della forma che ad esse diede Engels, ha individuato nella lotta di classe (ossia dei lavoratori, guidati dal proletariato organizzato, contro il capitale e i suoi rappresentanti) il momento fondamentale di messa in crisi del sistema economico e politico contemporaneo, destituendo di fondamento e di significato i concetti stessi di nazione, di popolo, di memoria e di appartenenza collettiva e relegando nel campo delle sovrastrutture qualsiasi fatto o processo culturale.
In tal modo la lotta di classe assumeva come ambito spaziale del proprio dispiegarsi l’intero pianeta antropizzato. Ovunque si imponga un dominio di classe, e specialmente quando esso prende le forme del capitalismo, là va scatenato il conflitto. L’obiettivo politico principale, nella fase di lotta, è la conquista del potere. Questo almeno nella configurazione leninista e anche maoista del pensiero di Marx.
Il potere si conquista in nome del proletariato ma come avanguardia del popolo, contrapposto al capitale e alla classe capitalista o comunque alla classe dominante, che va sconfitta e annientata (almeno in termini economici, sociali e culturali, ma spesso anche fisici), per poter instaurare una società socialista e costruire così la premessa per il comunismo (ossia, la cancellazione delle classi sociali in quanto tali e infine dello stato stesso).
Naturalmente, ipotizzare di eliminare le differenze sociali sulla base di una dinamica di dominio semplicemente ribaltata rispetto a quella vigente, senza discutere nei suoi fondamenti concreti (pratici, ecologici, culturali) il modello produttivo egemonico e senza tener conto del fascio di relazioni complesse di cui ogni collettività è composta, è un errore di ragionamento che a sua volta fonda una prassi inevitabilmente violenta nella forma e storicamente destinata a fallire.
Di fatto, in nessun luogo e in nessun caso la fase di presa del potere dell’avanguardia socialista si è mai evoluta oltre. Dove più dove meno, per poter imporre la propria prospettiva sia delle forme produttive, sia delle forme di socializzazione e di acculturazione, ha dovuto mettere in piedi e mantenere anche con mezzi coercitivi dei regimi autoritari.
Non tutti uguali e non sempre con gli stessi esiti deleteri, è vero. Ma è storicamente accertato che tale modello non ha mai mantenuto le promesse (e realizzato le premesse) su cui si fondava. Tanto meno è riuscito ad imporre una lotta sovralocale, internazionale. Gli spazi di realizzazione del socialismo storico si sono sempre ridotti, alla fin fine, a quelli ritagliati dal nazionalismo e dai processi storici precedenti.
Il che non significa tanto che il socialismo sia fallito nell’intento per ragioni intrinseche alle sue premesse, ma più che altro da un lato che i suoi tentativi di realizzazione sono stati mal congegnanti e da un altro – e qui siamo al nodo di questo discorso – che le forze storiche in campo e i fattori restrittivi con i quali esse devono fare necessariamente i conti non tollerano (ancora?) uno spazio di dispiegamento molto più grande di quello in cui si sono realizzati concretamente gli stati nazionali.
Questo deve dare da riflettere a chi, sulla base della tradizione ideale marxista o comunque di sinistra (compresi i suoi sviluppi novecenteschi), rinnega la consistenza storica del concetto di nazione e di popolo, delle reti relazionali fondate su altro che non siano i rapporti di produzione, o ignora il fattore geografico, come se non si trattasse di fattori strutturali ineludibili.
Nel caso della Sardegna, questo ha prodotto una serie di equivoci disastrosi, di cui ancora paghiamo le conseguenze e che si fa fatica a far riconoscere come tali. Per esempio la follia del Piano di Rinascita è ancora strenuamente difesa non solo da chi se ne fece promotore, ma anche da molti militanti di sinistra (di ieri e di oggi) che vedevano nella proletarizzazione di una fetta consistente della popolazione sarda e nell’imposizione di modelli produttivi industriali una forma di avanzamento sociale e culturale, atta a creare una nuova coscienza collettiva e di conseguenza a dare alle istanze socialiste la forza di imporsi sull’Isola, così come in Italia e in Europa, o nel mondo. Un cortocircuito teorico e politico micidiale, del tutto dissennato.
Tanto dissennato da non essere stato in grado di comprendere che le istanze di uguaglianza e di coesione sociale proprie del socialismo in Sardegna in realtà erano già penetrate e hanno trovato a lungo terreno fertile molto più presso le comunità che mantenevano un legame forte con dinamiche economiche e forme sociali del passato che presso comunità più urbanizzate e disarticolate, votate a modelli importati.
Il senso della comunità e della prevalenza degli interessi collettivi (ossia di tutti) su quelli individuali in Sardegna è più un retaggio della nostra civilizzazione storica autoctona che della diffusione delle tesi marxiste sull’Isola. La disarticolazione produttiva e culturale di cui la sinistra sarda di matrice italiana si è resa complice e in molti casi protagonista nel secondo dopoguerra ha ottenuto l’unico risultato di liquefare la nostra rete di relazioni e di rapporti sociali, lasciandola alla mercé delle imposizioni egemoniche calate dall’alto, in funzione di interessi estranei.
Quel che ne viene fuori è fondamentalmente l’assoggettamento ai modelli egemonici veicolati dalla televisione italiana e il successo, per qualcuno inopinato, della narrazione berlusconiana (pensiamo alle ultime elezioni per il consiglio regionale e alla vittoria di uno emerito sconosciuto contro Renato Soru, o – più in generale – della diffusione de modelli culturali consumistici).
Ignorare il peso che hanno i fattori culturali e geografici, la stratificazione storica della nostra civilizzazione, è un gravissimo errore commesso da quella parte della società sarda, dei nostri intellettuali e della nostra classe dirigente, che si diceva votata alla nostra emancipazione storica e invece ha finito per contribuire a privarcene.
Far finta che l’unico spazio in cui si possano dispiegare le nostre pretese di benessere, di rispetto dei nostri diritti e si speranza in condizioni di vita migliori sia l’ambito italiano, è una forma di autolesionismo collettivo da cui è indispensabile liberarci e liberare soprattutto quella larghissima maggioranza dei sardi che da questo status quo ha sempre avuto da perdere e continuerà a perdere ancora.
L’unico spazio a disposizione dei sardi per fondare una propria forma di convivenza che non sia passivamente sottoposta a scelte e interessi estranei, è lo spazio geografico e storico sardo. Solo dentro tale ambito si possono dispiegare la dialettica sociale e le forme basilari di produzione, scambio e socializzazione, che poi ci consentirebbero di interfacciarci e generare interdipendenze virtuose con gli spazi contigui e infine anche con quelli più lontani.
Senza la delimitazione del nostro spazio geografico di riferimento e la coscienza collettiva della nostra soggettività storica noi semplicemente non esisteremo. Non esisteremo ai nostri occhi e non esisteremo agli occhi altrui. Il che ci ridurrà, come ci ha ridotto negli ultimi duecento anni, alla condizione di mero oggetto storico. Le conseguenze sono evidenti, è la loro causa ad essere misconosciuta.
L’unica scelta emancipativa a nostra disposizione, al di là degli slogan e degli egoismi di parte, è quella di cambiare noi stessi lo scenario in cui agiamo, di approfittare dell’attuale crisi di transizione storica per ricollocarci nello spazio europeo, mediterraneo e dunque mondiale in termini diversi da quelli attuali. E questo non lo si può fare senza mettere in radicale discussione l’attuale rapporto di dipendenza politica (ed economica e culturale) con l’Italia.