La “sindrome di Pitzolo” e alcuni segnali tragicomici di un mutamento di fase

A perorare la causa delle famose Cinque domande al re di Sardegna, nel 1793, fu mandato tra gli altri Gerolamo Pitzolo, uomo distintosi nell’impresa di organizzare e guidare la vittoriosa resistenza allo sbarco francese del febbraio di quell’anno (tra poche settimane saranno 220 anni tondi).

Pitzolo si trattenne a Torino per alcuni mesi. Al suo ritorno non aveva conseguito alcun risultato pratico relativamente allo scopo per cui era stato mandato lì, ma in compenso poco dopo ottenne per sé la carica di Intendente Generale.

La storia sarda contemporanea è costellata da figure simili. Pitzolo è il prototipo dell’esponente della classe dominante sarda degli ultimi due secoli.

Dico il prototipo e non il paradigma perché il suo fu un tentativo imperfetto.

I suoi contemporanei non ne gradirono la disinvoltura morale e, considerandolo ormai alla stregua di un controrivoluzionario, dunque di un traditore della causa, lo linciarono il 6 luglio del 1795.

Stessa fine drammatica di quell’altro bel tomo del marchese Paliaccio della Planargia, Generale delle armi ed esponente del partito della restaurazione, trucidato qualche giorno dopo.

Il modello  impersonato dal Pitzolo fu comunque perfezionato negli anni e nei decenni successivi, fino a raggiungere la sua compiutezza con Francesco Cocco Ortu in epoca giolittiana (fine Ottocento, primi del Novecento) e poi, mutatis mutandis, nel corso del Novecento, fino ai giorni nostri.

Ho scritto fino ai giorni nostri; tuttavia l’apparente immutabilità dei processi storici sardi (una leggenda infondata, questa, come tante altre, ma ancora radicata) oggi sembra cedere di fronte a mutamenti fino a pochi anni fa impensabili.

Segni di questi mutamenti non sono enfatizzati a dovere dalle cronache. Che del resto, asservite come sono a vari centri di potere e interesse, sono poco propense ad analizzare compiutamente la realtà, a fornire materiale per un diffuso pensiero critico.

Per esempio, la sola idea che il Consiglio regionale della Regione Autonoma Sardegna potesse discutere una mozione recante la parola “indipendenza nazionale” sarebbe stato considerato pazzesco persino negli anni del “vento sardista”.

Nella fase attuale evidentemente tale tabù è ormai caduto. Certo, la mozione presentata dal PSdAz qualche settimana fa era solo una finzione retorica e un espediente strumentale, molto tattico e ben poco strategico.

Tanto più che non sarà certo la votazione su una mozione in Consiglio regionale a poter decretare il compimento giuridico della nostra autodeterminazione.

Tuttavia, già aver costretto la classe politica sarda a schierarsi e a dichiararsi è stato meritorio.

Illuminanti gli interventi dei vari consiglieri regionali nel dibattito in merito. Ben pochi hanno dimostrato in quella circostanza di sapere di cosa diavolo stavano parlando.

Nella maggior parte dei casi è emersa lampante tutta la mediocrità, l’ignoranza crassa e il servilismo interessato dei nostri rappresentanti (e però pur sempre eletti da qualcuno, evidentemente).

Ancor più significativo, e non solo perché fresco fresco, il caso della composizione delle liste per le elezioni politiche italiane, specialmente riguardo al povero Partito (sedicente) Democratico.

Tante vanterie di autonomia rispetto alla segreteria romana, tanti richiami al sovranismo (esempio scolastico di neo-lingua orwelliana), tanti strombazzamenti autocompiaciuti sulle primarie per la scelta dei candidati, poi, in una notte, i baldanzosi emissari sardi della sezione locale del partito si vedono sbattere in faccia l’amara realtà.

Rispediti sull’Isola con le pive nel sacco, come una novella delegazione stamentaria. I candidati dei collegi sardi li deciderà Roma, ovviamente. Con tanti saluti a autonomia, sovranismo e millanterie assortite.

In questo caso non è tanto l’esito – scontato – dell’episodio, quanto l’evidente preoccupazione circa le sue possibili ricadute politiche ad essere rilevante.

Serpeggia, anche tra gli esponenti più ottusi dei partiti italiani in Sardegna, la sensazione che non sia più conveniente oggi dimostrarsi tanto passivamente subalterni verso i poteri esterni da cui pure si dipende.

Al tempo della rivoluzione certe cose si risolvevano per le spicce. Si faceva presto a cacciare via i piemontesi e anche a trucidare in piazza i leader infedeli.

La medicina per liberarsi dal pericolo di ribaltamenti traumatici allora fu un più stretto accordo tra la classe dominante sarda e la corona sabauda, ribadita poi in varie forme nel corso dell’Ottocento e del Novecento, a dispetto dei mutamenti di regime, come sappiamo.

Oggi non sembra plausibile una via d’uscita altrettanto vantaggiosa, per chi domina la scena sarda in conto terzi.

Non è una situazione politica che prometta bene. È più tragicomica, che ridicola.

Non facciamoci illusioni sulle modalità di reazione del popolo agli eventi. In certe situazioni – e la presente ha tutta l’aria di essere una di quelle – la storia subisce improvvise accelerazioni. Quel che si ipotizzava potesse accadere nel giro di anni o di decenni, accade nel giro di mesi. Cambiano di poco certi equilibri e tutto precipita.

Solo la classe dominante sarda e la sua espressione politica non danno mostra di rendersene conto. Tutti lì a pianificare come sfangarla, come mantenere privilegi e consensi cambiando il meno possibile, barcamenandosi tra gli interessi dei loro padroni oltremarini (gli unici a garantire loro quel minimo di legittimità e di credibilità indispensabile) e le pulsioni che emergono sul territorio.

Non possiamo nemmeno augurarci uno sfascio istituzionale o una deriva incontrollata.

Troppo facile, in quel caso, nelle condizioni in cui ci troviamo, virare tutto nel segno di soluzioni autoritarie, magari alimentate da una robusta dose di demagogia.

Oppure favorire un intervento ancor più diretto delle forze che vedono la Sardegna come una fonte di profitti o di vantaggi d’altro genere, poco disposte a negoziare con chicchessia, una volta venuti meno i loro docili referenti politici.

Insomma, i tempi sono turbolenti ma interessanti, è vero, tuttavia va acquisita rapidamente una diffusa coscienza politica della posta in gioco, nell’ottica della sopravvivenza collettiva, prima di tutto, ma anche in una prospettiva più ampia, sul medio e lungo periodo.

Sarebbe il caso che le forze produttive più sane e non clientelari, le formazioni sociali non parassitarie, gli intellettuali onesti e liberi, le università, persino la chiesa sarda prendessero finalmente una posizione chiara, non più attendista, e lavorassero a un nuovo modello di convivenza che faccia tesoro delle nostre risorse materiali e immateriali e delle nostre reti di relazioni.

Non è un auspicio retorico, è una necessità storica. Le elezioni sono snodi evenemenziali che danno sfogo a processi sottostanti e spesso innescano esiti storici non previsti. Sarà un anno intenso, quello che ci aspetta.