Ancora a proposito del ricordo di Palabanda e della rimozione della nostra storia

In seguito alle commemorazioni di lunedì 29 e martedì 30 ottobre e al dibattito che – nella pressoché totale indifferenza dei mass media mainstream – ne è comunque nato, riporto un pezzo uscito in proposito su SardiniaPost, con le considerazioni dello storico Luciano Marrocu, e la mia risposta (inviata alla medesima testata, ma non pubblicata).

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Articolo di SardiniaPost

“Con questa furia demolitrice si vogliono cacciare dal nostro corpo sociale aspetti che ormai fanno parte di noi. Invece di concentrarci sulla demolizione fisica, che mi sembra balzana, esercitiamoci in uno sforzo di riflessione sulla nostra storia”. (di A.T.)

Lo storico e scrittore cagliaritano Luciano Marrocu replica con queste parole alla proposta di demolire la statua di Carlo Felice, situata nell’omonimo Largo, e di rispedirla a Torino. L’occasione della provocazione è stata fornita dall’anniversario dei duecento anni dalla Rivolta di Palabanda, quando un gruppo di congiurati stampacini provarono a ribellarsi al re Vittorio Emanuele I (del quale Carlo Felice era il fratello) e all’imposizione fiscale massiccia che si abbatté in quegli anni sui sardi per finanziare le spese di corte.

La congiura consisteva in un’insurrezione pianificata per la notte tra il 30 e il 31 ottobre del 1812 e finì male: alcuni dei cagliaritani coinvolti vennero giustiziati, altri morirono in carcere. Ed ecco che, in occasione dell’anniversario, un gruppo di indipendentisti ha l’idea di rimuovere la statua.

“Ma è ormai passata molta acqua sotto i ponti di quel luogo fisico e virtuale”, ragiona Marrocu. “Mi viene in mente un ricordo dei miei vent’anni, quando il Cagliari vinse lo scudetto e Carlo Felice fu vestito di rossoblù. Quel luogo ha osservato molti momenti della nostra storia e non demolirei quella statua neppure virtualmente”.

Questo pur dando un giudizio fortemente negativo sulla figura di Carlo Felice. “Ma farei delle distinzioni – precisa Marrocu – Se partiamo dall’assunto che i principi e gli aristocratici, salvo quei pochi che durante la rivoluzione francese hanno preso le parti del popolo, andrebbero rottamati tutti, se proponiamo insomma una rottamazione dei potenti e dei prepotenti, allora anche Carlo Felice andrebbe rottamato. Se invece ragioniamo sulla sua figura, certo Carlo Felice era tra i peggiori, ma non il peggiore. Lo metterei in una posizione di demerito ma non di fortissimo demerito”.

Sulla congiura di Palabanda invece lo storico ci tiene a mettere in risalto due aspetti: “Palabanda fu il risultato del ricordo di quello che era avvenuto il 28 aprile del 1794, con la cacciata dei piemontesi. Nel 1812 il miracolo non riuscì perché quella volta mancava l’appoggio popolare. Vedo però in Palabanda la rivolta di un quartiere, di Stampace, che coltivava una vocazione rivoluzionaria che si è espresssa in più momenti della sua storia. Palabanda allora era un’area quasi ai confini esterni di Cagliari e di Stampace, dove quel po’ di borghesia che c’era aveva i suoi caseggiati di campagna. Si riunivano nella zona dell’orto botanico, vicino dalle rovine dell’Anfiteatro romano, che ricordavano, a Salvatore Cadeddu e agli altri congiurati, un simbolo del passato della grandezza cagliaritana”.

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La mia replica

Le obiezioni di Luciano Marrocu alla proposta (chiaramente provocatoria) di rispedire a Torino la statua di Carlo Felice meritano una replica, sia storica sia politica.

In termini storici, è evidente come Marrocu non abbia colto il significato di una manifestazione che non voleva essere banalmente iconoclasta, bensì mirava a destare un minimo di interesse nella cittadinanza per la nostra storia, palesemente ignorata dalla grandissima maggioranza dei sardi.

Tra le altre cose, della nostra storia è indispensabile maturare una conoscenza non episodica e superficiale ma documentata e meditata su quello snodo fondamentale che fu la stagione rivoluzionaria sarda, di cui la repressione della cosiddetta congiura di Palabanda è in qualche modo l’episodio finale e l’epitaffio.

Marrocu purtroppo in questa circostanza dà prova degli stessi limiti di cui soffre da duecento anni la nostra storiografia, più preoccupata di garantirsi una propria legittimità nel sistema accademico prima sabaudo poi italiano, che di svolgere con acribia e onestà intellettuale il proprio delicato compito culturale. Culturale e politico, dato che alla polis è rivolto e della polis forma il sostrato di conoscenze e narrazioni su cui si fonda, nel nostro mondo contemporaneo, la coscienza di sé come collettività e lo stesso senso di appartenenza dei cittadini.

Derubricare i moti rivoluzionari sardi e i singoli episodi che li hanno caratterizzati a vicende di second’ordine, a ribellioni irriflesse di una plebe senza coscienza politica, o a fatti di quartiere (come fa Marrocu con la “congiura di Palabanda” o fanno altri per il 28 aprile), è un espediente narrativo molto praticato dai nostri storici, quasi tutti fedeli prosecutori, in questo senso, dell’opera normalizzatrice di Giuseppe Manno.

Il motivo di questa difficoltà a raccontare la Sarda Rivoluzione per quello che fu è al contempo estremamente opaco, camuffato da una cortina di disinformazione e artifici retorici, e chiarissimo, nella sua radice storica e culturale. L’ambiente accademico sardo fa parte di quella classe dominante uscita dalla stagione rivoluzionaria in una nuova posizione di forza. Accogliere a Cagliari la corte sabauda in fuga, nel 1799, senza metterla alle strette e conquistare, da una posizione di indubbio vantaggio, tutto ciò che solo pochi anni prima anche la stessa aristocrazia e l’alta borghesia avevano rivendicato, è significativo di quale sia stata allora la scelta di fondo: non diventare una classe dirigente in senso moderno, ma ripiegare su un ruolo di intermediazione tra il centro del potere e degli interessi dominanti – esterno – e il territorio della Sardegna, sul quale tale classe dominante otteneva mano libera.

Le evoluzioni politiche successive non sono riuscite a scalfire tale struttura di base. L’opera fittiziamente riformatrice di Vittorio Emanuele I e dello stesso Carlo Felice la consolidarono (chiudende, abolizione del feudalesimo a spese delle comunità, ecc.), la Perfetta Fusione la canonizzò in termini giuridici e politici, così come fece – a maggior ragione – l’unificazione italiana, che relegò definitivamente la Sardegna a un ruolo periferico e insignificante nell’ambito del nuovo stato italiano e delle dinamiche internazionali, mero oggetto economico e politico in mano a interessi esterni. Le pratiche clientelari e proconsolari di Francesco Cocco-Ortu in età giolittiana (vero paradigma della politica sarda contemporanea) e persino l’autonomia regionale del 1948 non hanno fatto che conferire semplicemente un abito nuovo a tale rapporto di potere e di dipendenza.

Ecco perché evitare di sciogliere il nodo storico e politico della nostra stagione rivoluzionaria è fondamentale per il mantenimento dello status quo in Sardegna. Ed ecco perché la nostra storiografia accademica, organica all’apparato dominante in Sardegna, si è in larghissima parte dedicata negli ultimi due secoli a certificare tale status quo come inevitabile ed anzi addirittura preferibile a qualsiasi alternativa.

Sollevare il problema, come ha tentato di fare la manifestazione che ricordava il martirio dei patrioti di Palabanda, non è dunque un esercizio di rimozione storica, né di iconoclastia senza costrutto. Non ha nulla del rifiuto della nostra storia, ma anzi è un grido collettivo che reclama di riappropriarcene. Gli storici sardi avrebbero il compito di fare prima di tutto il proprio mestiere, raccogliendo e pubblicando documenti (che anche per quest’epoca decisiva non mancano, ma vengono lasciati a giacere negli archivi, salvo rare e meritorie eccezioni), offrendo una ricostruzione metodologicamente corretta di quelle vicende, senza sudditanze verso le cornici storiografiche nazionaliste e risorgimentaliste italiane, inserendo anzi la Sardegna, come sarebbe giusto e onesto fare, nell’ambito delle correnti culturali e politiche internazionali in cui era effettivamente immersa, restituendo ai protagonisti di quelle vicende drammatiche la loro dignità e il giusto riconoscimento per il loro tentativo di modernizzazione reale dell’Isola.

La rivoluzione sarda è stata la prima vera rivoluzione europea dopo quella francese. Questo non sta scritto in nessun libro di storia italiano su cui noi stessi (non) studiamo la nostra storia. È stata un’epopea lunga e articolata, complessa e affascinante, pienamente inscritta nella temperie intellettuale e sociale di quell’epoca. Ridurla – come fa Marroccu e come fanno troppi storici sardi – a un fatto provinciale di poco conto e di scarso respiro, ridimensionarla a rivendicazione “autonomistica”, eliminare dalla scena tutti i significati e tutte le connotazioni problematiche per il nostro presente che porta con sé, è un atto politico ben preciso, nelle sue implicazioni e nei suoi obiettivi: perpetuare la nostra condizione di dipendenza e il nostro status di oggetto storico. In storiografia la auspicata “rivolta dell’oggetto” non si è ancora compiuta. È una grave responsabilità degli storici e degli intellettuali sardi. Non si possono colpevolizzare i cittadini o le formazioni politiche indipendentiste che – al solito, più avanti di chi detiene una qualche forma di potere da preservare – intendono riappropriarsi della nostra storia e contribuire a una nuova, vera memoria collettiva. Nel nostro processo di emancipazione storica e politica, la rimozione simbolica della statua di Carlo Felice a Cagliari o l’eliminazione delle intitolazioni sabaude da strade e piazze sarde non saranno certo azioni dal sapore oscurantista, né un prezzo troppo alto da pagare.