Ancora una volta si piange la morte dell’autonomia regionale sarda. Il governo italiano deve raschiare il fondo del barile, per non toccare i privilegi e i patrimoni della classe dominante italica, e non può esimersi dal mettere le mani sul bottino rappresentato dalle fiscalità delle autonomie regionali. Niente di sorprendente, in fondo. Tanto meno in Sardegna.
Fa sinceramente sorridere (amaro) che oggi si sventoli l’ennesimo anello di una lunghissima catena di inadempienze e violazioni come se fosse quello decisivo e fatale. Sembrerebbe che l’autonomia sarda sia stata in passato qualcosa di reale, di concreto, e che sia messa oggi in dubbio o in pericolo da scelte governative italiane del tutto inedite nella forma e nella sostanza. Così non è. Da sempre l’Italia ha imposto alla Sardegna i suoi interessi (o meglio, di chi ne aveva e ne ha il controllo economico, sociale e politico).
Non è questione di Cappellacci. Certo la sceneggiata sulla costituzione in giudizio nel processo sul disastro del Salto di Quirra è decisamente penosa. Presentare l’istanza in ritardo sa proprio di espediente disperato, in mancanza di meglio. Talmente grossolano, da risultare del tutto inefficace, anzi controproducente. Ma la classe politica sarda è ormai in caduta libera, quanto a finezze retoriche e sapienza nell’arte del compromesso. E’ costituita dagli avanzi avariati della politica dell’ultimo secolo, dagli eredi indegni, viziati e impresentabili del sistema di potere clientelare che vige sull’Isola da che siamo diventati una provincia oltremarina dello stato italiano.
L’autonomia sarda non è mai stato altro che uno specchietto per le allodole, un altro dei tanti feticci su cui si fonda la nostra dipendenza e la nostra sindrome da subalterni patologici. Nata per evitare derive “separatiste”, si è sempre barcamenata tra i centri di potere reale (esterni) e il controllo del territorio. Cappellacci, La Spisa, Pili, Oppi e compagnia non hanno inventato nulla. Così come i loro colleghi dello schieramento diversamente consenziente che costituisce l’attuale improbabile opposizione politica.
Prima di scandalizzarci per l’ennesimo atto di prepotenza e di disprezzo da parte del governo o del parlamento italiano (sulle entrate, sulla lingua sarda o su qualsiasi altra cosa), attribuendone la responsabilità all’attuale – invero patetico – governo regionale, bisognerebbe anche ricordare le assurde decisioni assunte proprio in materia di entrate dalla giunta Soru. La pretesa che tale esperienza di governo regionale sia stata la migliore della nostra storia recente ha qualche fondamento, ma solo perché il termine di paragone è a dir poco scadente. La giunta Soru, purtroppo, quanto a debolezza e sudditanza verso i governi centrali, non ha certo dato una prova migliore di altre amministrazioni regionali. Basti pensare proprio all’accordo bidone con Prodi sulle entrate e a tante posizioni apparentemente di rottura, dichiarate e propagandate come tali, ma poi nei fatti rivelatesi rinunciatarie (sulle servitù militari, sugli interessi dei grandi gruppi speculatori italiani, ecc.).
Insomma, il problema non è che l’autonomia sia morta, ma che non sia mai nata. Non può morire un fantasma, un mero flatus vocis. E non significa che sia da rimpiangere, perché è evidente a chiunque ragioni con libertà di giudizio, che non è concepibile per la Sardegna alcuna condizione concreta di autonomia senza che venga radicalmente messo in discussione (o in pericolo, a seconda del punto di vista) lo status di dipendenza dall’Italia. Questo perché le nostre condizioni geografiche, storiche, culturali, i nostri interessi economici e sociali, le nostre necessità strutturali, sono per ragioni obiettive incompatibili e inconciliabili con quelli dell’Italia.
L’autonomia non è da rimpiangere e non è nemmeno da evocare come progetto politico per il futuro. Invece è esattamente questo ciò che fanno le forze politiche che attualmente occupano le istituzioni sarde. Parlando di sovranismo e di sovranità mistificano concetti impegnativi piegandoli alla proprie esigenze tattiche, col retropensiero che tutto debba cambiare affinché niente cambi. Nessuno tra i partiti maggiori e tra i loro alleati ha davvero intenzione di modificare i rapporti di dipendenza consolidati dentro i quali hanno prosperato fin qui. Ne deriverebbe una improvvisa necessità di assumere in prima persona responsabilità impegnative. Dovrebbero prendere posizione, fare scelte, dotarsi di un orizzonte politico e di un collegamento con quello che a quel punto sarebbe il loro unico referente concreto: la Sardegna e i sardi. Conseguenze che la classe politica sarda vuole evitare come la peste.
Fa comodo a tutti oggi evocare la morte dell’autonomia. Fa comodo a chi vorrebbe eliminare qualsiasi possibilità anche solo teorica di autodeterminazione dei sardi, con l’argomento che non siamo in grado di decidere per noi stessi, come dimostrato appunto dalla morte ingloriosa dell’esperienza autonomista (e dunque, viva il centralismo e lasciamo che siano altri a decidere per noi). E fa comodo a chi vorrebbe mantenere la finzione di una dialettica tra “regione” Sardegna e stato centrale, sulla base del mito tecnicizzato dell’identità, per poter evitare di assumersi responsabilità reali e conservare il proprio comodissimo ruolo di intermediazione e di gestione clientelare del territorio.
Non bisogna dunque cadere nel tranello manipolatorio delle forze politiche principali e dei mass media loro complici. La retorica della “morte dell’autonomia” è solo l’ennesimo inganno ai nostri danni. L’autodeterminazione politica dei sardi non sarà mai la conseguenza di una concessione. Saranno i sardi a doverla imporre, in termini democratici e pacifici, allo stato italiano, nell’ambito del diritto internazionale. In un processo condiviso e in termini negoziali, se possibile, ma senza attardarsi in fumose divagazioni gattopardesche buone solo a conservare lo status quo.