Oltre il limite

Ci sono molte domande da fare e da farsi a proposito di quanto succede in Sardegna in questi giorni. L’impressione infatti è di essere risucchiati in un vortice di nonsenso più potente del solito. Forse l’urgenza del reale, la forza intrinseca dei fenomeni storici in corso, è così grande che ad essa deve corrispondere una reazione altrettanto forte da parte di chi gestisce la narrazione in cui siamo immersi. Solo che – come insegnano gli antichi – il troppo stroppia. Oltre un certo limite, la trama non regge, l’intreccio si sfalda, cominciano ad essere evidenti e dunque meno efficaci gli espedienti retorici.

Così, andando a guardare da vicino, sia la mobilitazione dei cosiddetti forconi sardi (definizione massmediatica odiosa, oltre che fuorviante) sia la reazione della politica nostrana mostrano alcuni aspetti non solo opachi ma persino inquietanti. Qualche sospetto lo si trova espresso qui e là, in Rete (per esempio qui). Non ho la pretesa di scoprire l’acqua calda. Vorrei però fare due più due e cercare di capire. Perché da capire e da spiegare c’è molto.

Dunque vediamo. Chi anima la protesta sono esponenti di categorie indubbiamente in crisi, ma non sembra che la rappresentanza sia generale e condivisa: chi manifesta e blocca le strade costituisce una minoranza anche dentro le categorie che si pretende siano compattamente schierate con questo movimento. In più, tra partite IVA, camionisti, agricoltori esecutati e pastori ci sono facce decisamente ben note di leader politici minori, arruffapopoli sempre in cerca di visibilità, cani sciolti in cerca di riparo. L’appello ai bassi istinti conditi di luoghi comuni ribellistici è la ricetta retorica dominante, da queste parti. Lo spazio mediatico garantito da giornali e telegiornali mainstream moltiplica la portata dei fatti, ma non ne cambia la natura. Ieri per dire i leader della protesta si sono radunati insieme, nella Consulta che dovrebbe rappresentare le varie forze in campo, e hanno redatto una supplica al sovrano, travestita da ultimatum. Una richiesta di protezione, di soldi, di esenzione da multe o da altre forme di ammenda tributaria e/o amministrativa. Sostenuta dalla minaccia di “azioni eclatanti” non meglio precisate. Il peso politico reale di questo avvenimento è minimo, eppure i mass media sardi ne danno conto e conferiscono ai soggetti coinvolti dignità di interlocuzione in ambito pubblico.

L’impressione che se ne può trarre è che si tratti di un movimento populista solo parzialmente rappresentativo, votato al ricatto violento verso la politica, per scopi materiali immediati, a vantaggio di pochi soggetti. Un po’ di corporativismo, un po’ di vecchio rivendicazionismo in salsa sarda, qualche furbata mediatica e il gioco è fatto. Molta attenzione a loro e poca al resto (che è tanto). Nessuna coscienza di un interesse più generale, di un livello di lotta superiore, politicamente più significativo. Che per lo più si tratti di elettori di centrodestra (sia a livello sardo sia a livello italiano) è un segnale abbastanza chiaro della natura strumentale della protesta.

Protesta che assume la forma inaccettabile del sequestro di persona collettivo. Con tanto di richiesta di riscatto. Questo è inammissibile. Nessuna forza politica sana, onesta, votata al bene comune, può avallare o peggio cavalcare queste forme di azione pre-politica, derivanti da un disagio reale e spesso drammatico, ma piegate verso obiettivi miopi, asfittici, di parte.

E qui veniamo alla politica dei partiti maggiori. Pochi giorni fa il consiglio regionale ha votato unanimemente a favore di una mozione a proposito della chiusura dell’Alcoa di Portovesme (presentata da Chicco Porcu, del PD). Un testo al limite della farsa, autocontraddittorio, penosamente privo di contenuti politici, senza dignità. Dentro ci si può leggere la pretesa ridicola che l’Alcoa non chiuda i battenti a Portovesme (decisione già presa da tempo), la solita supplica al governo perché intervenga in nostro soccorso, l’assurdo auspicio che insieme alla – negli auspici – rediviva attività industriale si facciano anche le bonifiche di quell’area disgraziata e si garantiscano la salubrità dei luoghi e l’integrità ambientale.

Al contempo – e qui cominciano a sorgere dei sospetti più definiti – apprendiamo che il presidente Cappellacci sta bombardando di lettere e richieste di incontro il presidente del consiglio Monti (ovviamente senza ottenere risposta), adducendo come argomentazione il pericolo del caos, delle rivolte, dell’esplosione della rabbia popolare e facendosi forte dell’appoggio di tutte le forze politiche sarde, parlamentari compresi. Ossia, anziché fare ciò che si può e si deve per affrontare i problemi e soddisfare le legittime aspettative della cittadinanza, ne si cavalca il malcontento per chiedere protezione ai padroni, a Roma.

Nell’insieme la sensazione è che la protesta popolare (ma non rivoluzionaria) sia usata da diversi soggetti come arma politica impropria. Ognuno con i suoi disegni, ognuno col proprio scopo. Da una parte i partiti maggiori, quelli che decidono le cose, sembrano servirsi della protesta, lasciandola crescere e quasi alimentandola ad arte, per mantenere sostanzialmente lo status quo, dentro il quale essi hanno il loro ruolo di intermediazione da difendere. Un giochetto da apprendisti stregoni, pericoloso per loro e purtroppo per tutti noi. Dall’altra parte, i leader della protesta si prendono il ruolo di capipopolo, di manovratori delle masse, sperando di ottenere sia vantaggi pratici immediati da dare in pasto ai seguaci, sia soprattutto un posto al tavolo della spartizione, una quota di partecipazione alla gestione del potere.

Queste deduzioni sono inevitabili se si confrontano motivi, metodi e scelte tanto dei manifestanti quanto della politica sarda. Per quale ragione infatti le dimostrazioni invocano come interlocutore il governo italiano esattamente come fa Cappellacci e come fanno i suoi complici del PD e cespugli assortiti? Come mai nessuno tra tutti questi soggetti concentra attenzione e forze sulle cose che invece si potrebbero già fare, senza stare a chiedere – tramite il ricatto – tutela e protezione al governo centrale? Non sarebbe più sensato, da parte dei manifestanti, prendersela con la politica sarda e pretendere da essa una decisa assunzione di responsabilità, e pretenderla prima di tutto da se stessi? E la politica sarda non dovrebbe agire concretamente, con gli strumenti che già abbiamo, sulle questioni determinanti e strategiche come le entrate, le bonifiche e la riconversione nelle aree industriali, le infrastrutture e l’energia, i trasporti, l’agroalimentare, la scuola?

Troppe cose non tornano. L’unica certezza è che la Sardegna è sempre più alla deriva, senza uno straccio di progetto collettivo, senza una classe dirigente che si faccia carico dell’interesse comune, in balia di avventurieri e di furbi. Se non si ridiscutono le fondamenta stesse di questo sistema patogeno e ormai votato all’autodistruzione, non ne usciremo se non da morti. Ma per cambiare le cose vanno cambiati sia i metodi, sia le prospettive, sia l’intera narrazione che ci riguarda. Ragionare in termini corporativi o in termini di vantaggio immediato, come fanno tutti, non ha senso. Primo perché ormai non c’è più spazio di manovra, non ci sono più soldi pubblici da sperperare e da saccheggiare. Secondo perché la Sardegna in questo modo non uscirà mai dalla minorità economica, sociale e politica in cui versa da troppo tempo, per il vantaggio di pochi e a danno di tutti gli altri.

La speranza è che la stragrande maggioranza dei sardi, quelli che non hanno il culo al caldo, che non coltivano velleità egoistiche, che non si accontentano di slogan e di messe in scena, ma che invece lavorano, tengono in piedi la baracca, si assumono tutti i giorni responsabilità per sé e per gli altri, trovi finalmente uno sbocco politico condiviso, il coraggio di prendersi in mano la propria sorte e faccia finalmente scelte lungimiranti. La forza morale la abbiamo. Diffusa, disaggregata, confusa, ma la abbiamo. Non possiamo lasciare la scena ai guitti e ai venditori di fumo. Non è nel loro interesse cambiare veramente le cose. Pensiamoci, prima di esaltarci per una parolaccia gridata da un operaio senza speranza contro il bersaglio sbagliato.