Il senatore del PD Antonelo Cabras, politico di lungo corso rotto a tutti i cambi di stagione, pare abbia dichiarato che in Sardegna due università sono troppe e che ne basterebbe una. Il motivo? Il soldi che non bastano.
Be’, a questo punto, se è per risparmiare, perché non chiuderle entrambe? In fondo, a chi e a che cosa serve l’università? Ci stiamo abituando a perdere tutto, a rinunciare non tanto al superfluo – per cui c’è sempre posto – quanto all’essenziale, che siano relazioni personali o condizioni pratiche di vita, diritti acquisiti o spazi di libertà. L’università in fondo non è in cima alla lista delle priorità da nessun punto di vista. Basti considerare che la Sardegna ha una delle più basse percentuali di laureati a livello europeo. E poi, cos’è che fanno per noi le università sarde? Qual è il loro impatto sulla vita delle nostre comunità? Quali vantaggi otteniamo dalla loro esistenza?
Forse non è l’università ad avere un problema ma è l’università stessa ad essere un problema. Non è tanto il fatto che i due atenei di Cagliari e Sassari siano ormai da un quindicennio se non di più in una fase di decadenza conclamata e inarrestabile, a farne un comodo bersaglio, quanto precisamente il loro essere dei corpi estranei, sempre meno legati al contesto in cui esistono.
Questo è uno dei nodi fondamentali. Quando parliamo di università sarde in realtà stiamo parlando di università italiane in Sardegna. Il che significa che dal punto di vista dell’orizzonte culturale generale, degli interessi in gioco e delle decisioni politiche in merito tutto dipende dall’esterno, da scelte strategiche e da decisioni di spesa che con la Sardegna hanno poco o nulla a che fare.
Già solo il fatto di dover dipendere dal governo italiano, di dover fare riferimento a una strutturazione del sapere, a una didattica e a un sistema di selezione e reclutamento delle intellegenze che rispondono a criteri stabiliti per l’Italia, fa inevitabilmente delle università sarde degli atenei di provincia, poco rilevanti nel contesto istituzionale e culturale cui fanno riferimento, privi di una propria ragion d’essere. Senza aprire qui il doloroso capitolo delle pratiche nepotistiche, dei baronati intoccabili, delle scelte di ricerca e di didattica piegate a interessi di parte o di bottega, se non di famiglia. Del “sistema università” all’italiana come realmente è, insomma.
Chi entra nei ruoli dell’università in Sardegna deve accreditarsi nell’ambito accademico italiano, di suo provinciale, sgangherato, anti-meritocratico e corrotto, lontano dagli standard minimi europei e mondiali. Come può avere la Sardegna come punto di riferimento? Per l’università più che per altre agenzie formative o altri ambiti sociali e culturali noi siamo solo una regione periferica e poco significativa, politicamente debole, in un contesto ben più ampio e sostanzialmente estraneo.
Cabras, ragionando nella sua ottica prettamente italiana, dice bene, dunque: a che pro buttare soldi nell’università in Sardegna? Cosa ne viene all’Italia?
Ma la vera questione è che invece alla Sardegna servirebbe una università, un sistema unversitario all’altezza dei tempi e delle nostre esigenze. L’attuale rapporto numerico atenei/popolazione ci vede non in sovrannumero ma sotto la media, come presenza di università sul territorio. Anche senza considerare la nostra peculiarità geografica. Se nel Regno Unito c’è un ateneo ogni 510 000 abitanti, in Sardegna dovremmo averne almeno tre, di università, altro che ridurle da due a una.
A questo dato quanitativo poi si somma il pesantissimo dato qualitativo. Noi avremmo bisogno di università vere, di centri non solo finalizzati alla produzione di laureati, ma alla conservazione e crescita della conoscenza, alla generazione di strumentazione critica, alla moltiplicazione e finalizzazione delle intelligenze. Un sistema universitario che si ispiri agli standard internazionali, dove chiunque sia capace possa trovare la sua strada e il suo successo. Dove ci sia un interscambio continuo con altri paesi.
Pensiamo solo a quanto potrebbero essere valorizzate le nostre risorse materiali e immateriali dalla presenza in Sardegna di tre buoni atenei sardi. Pensiamo alle risorse naturali, a quelle ambientali, ad agricoltura e allevamento e alle produzioni agroalimentari, pensiamo alla nostra archeologia tanto ignorata e provincializzata dalle sovrintendenze italiane e dal conformismo accademico, pensiamo al nostro patrimonio linguistico e all’assenza della linguistica contemporanea nelle nostre facoltà, pensiamo alla ricerca medica e biologica, alle tecnologie legate alla produzione di energia da fonti rinnovabili… Pensiamo a tutto ciò e valutiamo quanto poco faccia l’università in Sardegna in rapporto con le potenzialità espresse dal nostro territorio.
Perciò, in definitiva, anche da questo punto di vista Cabras ha ragione. Chiudiamole queste università italiane in Sardegna. Non servono a niente e a nessuno.
Ma non per rimanere senza università, come forse qualcuno auspica, bensì per aprirne di nuove. Rifondare le nostre università, moltiplicarle a seconda delle nostre esigenze e fare in modo che siano davvero nostre, pagate e gestite da noi e nel nostro interesse, non tributarie verso l’esterno in termini finanziari, culturali, politici, e vincolate alle demenziali scelte politiche italiche in materia di università e ricerca.
Anche qui, come altrove, un sano e tempestivo esercizio di sovranità sarebbe un bel toccasana, insomma. Se solo qualcuno se ne facesse carico. Ma – perché sono sospettoso io di natura – dubito che al senatore Cabras stia a cuore questo risvolto della faccenda.